Dopo la chiusura del Pd, alla seconda settimana da leader della prima forza politica del paese, Luigi Di Maio passa al contrattacco. Convoca la stampa estera e, in pieno spirito pentastellato, prospetta uno scenario di intesa sui temi e di tensione sulle formule di governo. Da un lato impiega i toni accomodanti degli ultimi tempi, smussa gli angoli delle proposte politiche e sposa in pieno Ue e atlantismo. Dall’altro irrigidisce le condizioni per la formazione del governo, lanciando una sorta di ultimatum e rifiutando ogni scenario di governo istituzionale ad ampio spettro parlamentare.

«NON ESISTE ALCUNA IPOTESI di governo istituzionale o di governo di tutti», dice Di Maio chiaro e tondo, svincolando le trattative per l’elezione dei presidenti d’aula (che si terrà tra dieci giorni) da «ogni dinamica di governo». Per il capo politico grillino è impensabile «immaginare una squadra di governo diversa da quella espressa dalla volontà popolare». «C’è stata una grande investitura. I cittadini quando hanno votato M5S hanno scelto un candidato premier, una squadra e un programma». Dunque, non concede margini di trattativa sulla composizione dell’esecutivo. La squadra è quella presentata prima del voto, prendere o lasciare: «Chi vuole farsi avanti venga con proposte e non con posti nei ministeri, ministri, sottosegretari». «Siamo favorevoli all’interlocuzione con tutti sui temi», anche se, lamenta, «finora non ho visto avanzare neanche una proposta».

ED ECCOLE, LE PROPOSTE M5S. Suonano rassicuranti di fronte ai taccuini dei cronisti stranieri (come accade raramente, ieri il circolo della stampa estera era sbarrato ai giornalisti italiani). Dal pulpito in cui Virginia Raggi fece la prima uscita da candidata sindaca e Davide Casaleggio si sentì chiedere «Ma scusi, a lei chi l’ha eletta?», Di Maio ci tiene ad apparire moderato e pragmatico. «Le nostre misure economiche saranno sempre ispirate alla stabilità del paese, non vogliamo trascinare le dinamiche economiche nelle diatribe politiche», dice prima di polemizzare col ministro uscente Piercarlo Padoan: «Credo che sia stato molto irresponsabile a trascinare le questioni tra Italia e Bruxelles rispondendo ’Non so’ a proposito del futuro dell’Italia», attacca Di Maio accusando il ministro di voler avvelenare i pozzi passando all’opposizione. E invece, «tutti siamo chiamati alle responsabilità».

POI DICE DI CONSIDERARSI un moderato, in linea con gli altri partiti che governano in Europa: «Non vogliamo avere nulla a che fare con i partiti estremisti», la linea di politica estera targata M5S non isolerà l’Italia, perché intende «restare nella Ue e nella Nato», riservandosi il diritto di fare quello che hanno provato a fare i suoi predecessori: «Cambiare le cose che non vanno». Quanto all’economia, per Di Maio ormai «tutti vogliono superare il vincolo del 3%» del rapporto tra deficit/Pil. «Noi abbiamo a cuore l’idea di ridurre il debito pubblico con politiche espansive», insiste. «Il primo viaggio da candidato premier l’ho fatto negli Stati Uniti», ricorda per fornire credenziali atlantiste. Anche se si dice favorevole all’abolizione delle sanzioni alla Russia «nell’interesse dell’Italia» e spiega che «da presidente del consiglio non andrei né a Washington né a Mosca. Andrei prima a Bruxelles».

QUANDO GLI VIENE CHIESTO se considera un’incoerenza che i parlamentari eletti in un altro schieramento appoggino il suo governo, risponde che «in questo caso non si tratterebbe di cambi di casacca individuali». Pensa di utilizzare la piattaforma Rousseau per chiedere la convalida di eventuali accordi di programma? La domanda risulta secca e indirettamente paradossale. Sarebbe un po’ fuori misura: una forza politica votata da 10 milioni di italiani si appellerebbe all’opinione decisiva di qualche decina di migliaia di iscritti al portale di Casaleggio. Lui prende tempo: «Prima deve esserci l’interlocuzione, poi vedremo il metodo».

«LE URNE NON ci spaventano», è la minaccia. E allora gli domandano se pensa di abdicare al vincolo del doppio mandato elettivo. Lui nega con decisione: «Questa regola è sacrosanta». Il che significa che, allo stato, lui stesso non potrebbe ricandidarsi e che si troverebbe a chiedere a decine di parlamentari grillini di interrompere quasi subito la loro ultima legislatura. Una tagliola che, temono i vertici, potrebbe mettere in crisi anche i propositi più indomiti.