Nessuno, nei partiti alleati del M5S, affronta apertamente la spinosa faccenda: non si parla di corda in casa dell’appeso. Tutti però sono consapevoli di quanto sia elevato il rischio che il caos a cinque stelle finisca per travolgere il governo. Pallottoliere alla mano, gli ufficiali della maggioranza in parlamento dimostrano che il caso Paragone non cambia niente, un voto è solo un voto e quel voto era nei fatti già perso. Inoltre tutti sono certi che se necessario, in una forma o nell’altra, l’appoggio di Voce Libera, l’area forzista di Mara Carfagna, non mancherà. È indiscutibile, ma il problema rappresentato dalla doppia fuoriuscita di Paragone da destra e di Lorenzo Fioramonti da sinistra va ben oltre il conto minuzioso dei voti in aula.

Non bisogna infatti confondere i due casi in questione con le pur numerose uscite e/o espulsioni che hanno costellato il percorso dei 5S in questa legislatura. Stavolta infatti non si tratta di parlamentari «di base», resi celebri essenzialmente dalle loro posizioni critiche, e neppure di incidenti provocati da scelte particolarmente delicate. Fioramonti e Paragone sono, per motivi diversi, nomi pesanti nella variegata costellazioni grillina, che di astri più o meno luminosi, più o meno effimeri, ne conta ormai ben più di cinque. A differenza di tutti gli altri, l’ex ministro e l’ex conduttore eserciteranno certamente un’attrazione nei confronti delle rispettive aree a loro affini interne al Movimento: quella di sinistra e quella anti-europea. Attrazione destabilizzante anche quando resta interna alla maggioranza come nel caso della «Eco» di Fioramonti. Da un lato infatti moltiplica le voci interne alla maggioranza, rendendola ancora più rissosa. Dall’altro accelera la balcanizzazione dei 5S, potenziando così quello che è oggi il principale elemento di instabilità: la confusione che rende impossibile considerare il principale gruppo di maggioranza come terreno solido e sicuro.

Il terremoto, peraltro, è destinato a irrigidire ulteriormente le posizioni di Di Maio nelle trattative all’interno del governo. Una volta svanito il miraggio del Movimento né di destra né di sinistra, la cui inconsistenza è stata svelata proprio dalla polarizzazione di cui i casi uguali e opposti di Paragone e Fioramenti sono riflesso, il «leader politico» non ha altra strada che puntare i piedi senza cedere di un millimetro sulle bandiere del Movimento. Il vertice del 7 gennaio, con all’ordine del giorno prescrizione e concessioni autostradali, vedrà un M5S più che mai indisponibile anche a piccoli passi indietro. «Il prossimo passaggio cruciale sarà togliere le concessioni ai Benetton», scrive su facebook Di Maio, e che sia questa la propensione anche del premier, da cui dipende la decisione finale, è fuor di dubbio. Il Pd è però ben più cauto, con la ministra De Micheli che usa toni diversi da quelli del pentastellato: «Il ministero delle Infrastrutture non è la magistratura e non ho intenzione di sovrappormi alle procure», dice, e aggiunge che ci sono «evidenze concrete di mancate manutenzioni o di manutenzioni effettuate con criteri non oggettivi». Però, «si dovrà valutare l’impatto occupazionale della scelta». Molto meno prudente Italia viva, decisa a battersi contro l’articolo 33 del Milleproroghe, fondamentale nel probabile caso di battaglia legale.

Se mai Di Maio avesse avuto la tentazione di assumere posizioni meno drastiche e più concilianti, dopo le scosse di questi giorni ne ha perso la possibilità. L’eventualità, più volte paventata nei vertici notturni di maggioranza, di «non tenere più i gruppi» in caso di mediazione stavolta è una certezza.