Di classe e senza tempo, il sound di Bobby Watson
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Ritrovare Bobby Watson è stata una grande festa. Watson si è presentato con il giovane Wallace Roney Jr – figlio di tanto padre e trombettista come lui, e di tanta madre, la pianista Geri Allen, ahimé entrambi scomparsi – col pianista Jordan Williams, e con due veterani come Curtis Lundy al contrabbasso e Victor Jones alla batteria. Fin dal primo brano il quintetto ha operato la magia di trasformare un Teatro Donizetti sold out nello spazio intimo di un club. Se l’hard bop è emerso sulla scena del jazz sette decenni fa, in quello che Watson propone non c’è nulla di datato o routiniero, ma una musica spumeggiante, contagiosa, emotivamente generosa, e di grande classe; pieni di significato e con un linguaggio avanzato e attuale, gli assoli di Watson esibiscono una straordinaria varietà di umori, una larga tavolozza timbrica, feeling, senso del blues; Wallace Roney Jr ha calore e colore; la ritmica è implacabile, e al centro del palco e della musica c’è, come una roccia, Lundy: fratello della cantante Carmen Lundy, oltre che fin dagli anni settanta con Watson ha lavorato molto con la grande Betty Carter.
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«TEMPUS FUGIT», ha detto dopo un’occhiata all’orologio il sassofonista: senza che ci se ne fosse neanche accorti era già passata un’ora, e si sarebbe voluto ascoltarli tutta la sera. Di certo con Watson bisognerà cercare di recuperare il tempo perduto. A inaugurare la 45esima edizione del festival, giovedì pomeriggio, nel congeniale Teatro Sant’Andrea, cripta della chiesa omonima a Bergamo alta, Dave Burrell, 83 anni, eroe della generazione del free jazz; nel suo piano solo, in lunghi flussi senza soluzione di continuità, la classicità pianistica anche pre-bebop, quella dello stride e di Ellington, si incontra con una densa contemporaneità, le evocazioni melodiche – My Funny Valentine, Over The Rainbow, Summertime – si scompongono in inquietudini, gorghi, inviluppi; pianismo corposo, di nerbo: un maestro.
Pianismo di grande sostanza – al Teatro Sociale gioiello di Bergamo alta – anche quello di Danilo Perez, con il delizioso John Patitucci al basso e contrabbasso: per tanti anni con Brian Blade sono stati accanto a Wayne Shorter, premurosamente attenti a rispondere alla sua geniale non convenzionalità; qui alla batteria c’era Adam Cruz. Perez ha l’inconfondibile impronta del pianista latino, ma senza gli aspetti (spesso meravigliosamente) virtuosistici, esuberanti, barocchi per esempio di tanti pianisti di scuola cubana: ha anzi una asciuttezza e un ritegno magnifici, e il trio un gusto e una misura fantastici. Piace anche che Perez dedichi un brano ad Angela Davis, e uno a Toni Morrison. In uno degli appuntamenti pomeridiani, di scena l’inedito duo Moor Mother e Dudù Kouate, lei carismatica voce/poetessa degli Irreversible Entanglements, lui percussionista senegalese e bergamasco di adozione, che negli ultimi anni è stato anche cooptato nell’Art Ensemble of Chicago.
SPOKEN WORDS, con un pizzico di elettronica, su temi apocalittici, in bilico fra disperazione e speranza, e grande varietà di strumenti e suoni di Kouate, che si è prodigato con estremo tatto, hanno creato una dimensione molto intensa: pienone e grande successo all’Auditorium di Piazza della Libertà, segno che proposte non scontate possono pagare; da notare anche la presenza in sala di parecchi afroitaliani, non capita spesso ai festival del jazz, e non solo in Italia.
Moor Mother e Kouate sono stati anche fra i musicisti portati da Famoudou Don Moye sul palco del Donizetti per una celebrazione dei 50 anni dallo storico set al festival dell’Art Ensemble, quasi più una cerimonia/rito che un concerto in senso convenzionale; folgorante un momento in solo di Eddy Kwon, cantante e violinista non binario statunitense di origine coreana.
Poi nella serata di chiusura della prima edizione – con numeri da record tanto al Sociale che al Donizetti – della direzione artistica di Joe Lovano, un prezioso piano solo di Abdullah Ibrahim, 90 anni il prossimo ottobre.
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