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Musica e avanguardia, tra città alta e bassa Bergamo celebra il jazzA cavallo tra anni settanta e ottanta Bobby Watson era stato il direttore musicale dei Jazz Messengers, nella fase del grande rilancio della formazione di Art Blakey, che non attribuiva certo questo ruolo al primo che passava. Complice l’italiana Red Record, che gli fece incidere alcuni notevoli album, negli ottanta Watson fu parecchio presente nel nostro paese, tanto con gruppi a suo nome che con l’all sax 29th Street Saxophone Quartet. Più tardi lo si vide meno, e nel nuovo millennio anche la discografia a suo nome si è fatta più rada: così sabato sera, al termine dello strepitoso set del quintetto di Watson a Bergamo Jazz, tanti appassionati frugavano nella memoria per cercare di ricordare quando era stata l’ultima volta che avevano ascoltato dal vivo il suo sax alto. Addirittura appunto negli ottanta? Nei novanta?Varietà di umori nel live del sassofonista, pianismo di grande sostanza con Dave Burrell e Danilo Perez

Ritrovare Bobby Watson è stata una grande festa. Watson si è presentato con il giovane Wallace Roney Jr – figlio di tanto padre e trombettista come lui, e di tanta madre, la pianista Geri Allen, ahimé entrambi scomparsi – col pianista Jordan Williams, e con due veterani come Curtis Lundy al contrabbasso e Victor Jones alla batteria. Fin dal primo brano il quintetto ha operato la magia di trasformare un Teatro Donizetti sold out nello spazio intimo di un club. Se l’hard bop è emerso sulla scena del jazz sette decenni fa, in quello che Watson propone non c’è nulla di datato o routiniero, ma una musica spumeggiante, contagiosa, emotivamente generosa, e di grande classe; pieni di significato e con un linguaggio avanzato e attuale, gli assoli di Watson esibiscono una straordinaria varietà di umori, una larga tavolozza timbrica, feeling, senso del blues; Wallace Roney Jr ha calore e colore; la ritmica è implacabile, e al centro del palco e della musica c’è, come una roccia, Lundy: fratello della cantante Carmen Lundy, oltre che fin dagli anni settanta con Watson ha lavorato molto con la grande Betty Carter.Famoudou Don Moye celebra i cinquant’anni dallo storico set dell’Art Ensemble

«TEMPUS FUGIT», ha detto dopo un’occhiata all’orologio il sassofonista: senza che ci se ne fosse neanche accorti era già passata un’ora, e si sarebbe voluto ascoltarli tutta la sera. Di certo con Watson bisognerà cercare di recuperare il tempo perduto. A inaugurare la 45esima edizione del festival, giovedì pomeriggio, nel congeniale Teatro Sant’Andrea, cripta della chiesa omonima a Bergamo alta, Dave Burrell, 83 anni, eroe della generazione del free jazz; nel suo piano solo, in lunghi flussi senza soluzione di continuità, la classicità pianistica anche pre-bebop, quella dello stride e di Ellington, si incontra con una densa contemporaneità, le evocazioni melodiche – My Funny Valentine, Over The Rainbow, Summertime – si scompongono in inquietudini, gorghi, inviluppi; pianismo corposo, di nerbo: un maestro.

Pianismo di grande sostanza – al Teatro Sociale gioiello di Bergamo alta – anche quello di Danilo Perez, con il delizioso John Patitucci al basso e contrabbasso: per tanti anni con Brian Blade sono stati accanto a Wayne Shorter, premurosamente attenti a rispondere alla sua geniale non convenzionalità; qui alla batteria c’era Adam Cruz. Perez ha l’inconfondibile impronta del pianista latino, ma senza gli aspetti (spesso meravigliosamente) virtuosistici, esuberanti, barocchi per esempio di tanti pianisti di scuola cubana: ha anzi una asciuttezza e un ritegno magnifici, e il trio un gusto e una misura fantastici. Piace anche che Perez dedichi un brano ad Angela Davis, e uno a Toni Morrison. In uno degli appuntamenti pomeridiani, di scena l’inedito duo Moor Mother e Dudù Kouate, lei carismatica voce/poetessa degli Irreversible Entanglements, lui percussionista senegalese e bergamasco di adozione, che negli ultimi anni è stato anche cooptato nell’Art Ensemble of Chicago.

SPOKEN WORDS, con un pizzico di elettronica, su temi apocalittici, in bilico fra disperazione e speranza, e grande varietà di strumenti e suoni di Kouate, che si è prodigato con estremo tatto, hanno creato una dimensione molto intensa: pienone e grande successo all’Auditorium di Piazza della Libertà, segno che proposte non scontate possono pagare; da notare anche la presenza in sala di parecchi afroitaliani, non capita spesso ai festival del jazz, e non solo in Italia.

Moor Mother e Kouate sono stati anche fra i musicisti portati da Famoudou Don Moye sul palco del Donizetti per una celebrazione dei 50 anni dallo storico set al festival dell’Art Ensemble, quasi più una cerimonia/rito che un concerto in senso convenzionale; folgorante un momento in solo di Eddy Kwon, cantante e violinista non binario statunitense di origine coreana.

Poi nella serata di chiusura della prima edizione – con numeri da record tanto al Sociale che al Donizetti – della direzione artistica di Joe Lovano, un prezioso piano solo di Abdullah Ibrahim, 90 anni il prossimo ottobre.