«Volando nella notte quegli uomini hanno pensieri, di cose lontane. Paesi che sono in un’altra parte della terra, ai quali essi appartengono, e ai quali sperano di tornare un giorno». Così Giuseppe Berto, in una pagina memorabile del suo primo romanzo, datato 1946, immaginava i piloti dei bombardieri americani, assorti nella memoria d’oltreoceano, mentre guardano giù, verso gli obiettivi da colpire che «sembrano giocattoli per bambini». In questo sguardo si trova la cifra autentica del libro, Il cielo è rosso, appena ripubblicato da Neri Pozza (pp. 420, euro 18,00), che ha avviato nel 2016 l’edizione delle opere di Berto (sono usciti finora Il male oscuro, La gloria e Anonimo veneziano).

Riscoperto dalla critica, che gli sta restituendo un posto tra i maggiori scrittori italiani del secondo Novecento, Giuseppe Berto è stato per decenni anche un autore popolare: non era difficile trovarne le opere nelle biblioteche domestiche, specialmente Il cielo è rosso. Perciò, nel rileggere ora quel romanzo bisogna chiedersi quali elementi lo abbiano reso uno dei libri più importanti del secondo dopoguerra e quali fattori ne abbiano in seguito velato la fortuna, spingendolo ai margini del canone.

Italia anno zero
Tra le qualità, soprattutto l’efficacia nel rappresentare la distruzione, materiale e morale: se volessimo dare al libro un sottotitolo, il più appropriato sarebbe «Italia anno zero». In effetti Il cielo è rosso può essere accostato proprio al neorealismo cinematografico, forse più ancora che a quello letterario (del resto Claudio Gora ne trasse un film nel 1950). Proprio il confronto con i capolavori di Rossellini e De Sica mette però in risalto un’altra qualità che non finisce di stupire: mentre i maestri del neorealismo rappresentavano una realtà che avevano sotto gli occhi, Berto – che pure era riuscito a raccontare la rovina della guerra con grande verosimiglianza – quella realtà non l’aveva vista.
Catturato in Nord Africa nel ’43, lo scrittore era infatti internato nel campo di Hereford, in Texas, mentre gli alleati bombardavano Treviso, la città in cui è ambientata la vicenda dei quattro orfani protagonisti: due ragazze, la fragile Giulia e la risoluta Carla, che dovrà prostituirsi per sopravvivere; e due ragazzi, il capobanda Tullio e il seminarista Daniele.

Berto poté basarsi perciò solo sulle notizie, peraltro imprecise, che gli trasmettevano gli altri prigionieri e magari sulle foto della stampa americana reperibile nel campo. Tornato in Italia nel febbraio del ’46, portò con sé il romanzo scritto durante la prigionia; lo fece leggere a Comisso, che lo raccomandò per lettera a Longanesi definendolo «una svolta nella letteratura italiana». Fu proprio l’editore a cambiarne il titolo: al dantesco La perduta gente, proposto dall’autore, sostituì l’evangelico Il cielo è rosso (Matteo, XVI, 2,4). Il libro uscì alla fine del ’46, con la data dell’anno successivo.
Dai piloti americani
Sono queste circostanze a rendere emblematica l’immagine dei bombardieri da cui siamo partiti. Si capisce, infatti, che lo sguardo da lontano dei piloti americani era uguale e contrario a quello dello stesso scrittore: il paese «in un’altra parte della terra» era il suo e per raccontarlo non poté che mescolare sogno e memoria. Ma, diversamente da quella dell’aviatore, la prospettiva del narratore scende di cielo in terra, per mostrare le rovine e incarnarsi nel punto di vista delle vittime: «Forse erano tutti morti. Anche lei era morta, anche la donna che invocava Dio con una voce eguale. Ecco che già si trovavano in un mondo diverso, come vivi e non più vivi, sconsolatamente ognuno per conto proprio».

Allo straniamento dall’alto ne corrisponde uno dal basso; allo sguardo del pilota, che riesce a fare quel che deve solo illudendosi di colpire un paese giocattolo, si alterna quello di chi, disorientato tra le macerie, non sa più se è vivo o morto. È una corrispondenza decisiva, anche perché trova un parallelo sul piano del giudizio ideologico e morale: «C’erano molti sbagli in quello che facevamo noi» dice uno dei personaggi, il vecchio, «l’ho capito adesso con la guerra e tutto questo disastro. Però ci sono più sbagli in quello che fanno loro».

Forse anche l’autore si riconosceva in questo esame di coscienza; ma più importante è che nell’ammissione della colpa di tutti si annidino le ragioni di un male altrettanto universale: «”Il male non è in te o in me” disse il vecchio. “È in tutti gli uomini insieme”». Eppure, lo si è visto, ognuno al suo cospetto è «sconsolatamente per conto proprio»: è in questo doloroso paradosso che va cercato un legame fra Il cielo è rosso e Il male oscuro, pur così diversi soprattutto nello stile (quasi niente nel primo romanzo preannuncia lo sperimentalismo del successivo capolavoro).

In altre parole, la dialettica tra l’universalità del male e la solitudine di fronte a esso anticipa in chiave diversa la tensione tra nevrosi dell’individuo e psicosi della società messa in scena nel romanzo del 1964. E qui si trova anche una delle ragioni che potrebbero in parte spiegare la declinante fortuna del Cielo è rosso. Diversamente da altri romanzi sulla Seconda guerra e sulla Resistenza, quello di Berto disinnesca gli archetipi eroico-avventurosi, che hanno pur sempre bisogno di una dissonanza tra individuo e società, da cui possa scaturire un destino, per quanto incompiuto o frustrato.

Il tempo della inazione
Se è il modo epico ad avere soprattutto caratterizzato il racconto della guerra, si capisce come Il cielo è rosso non potesse che finire ai margini. Basta leggerne il finale, nel quale la coscienza della sconfitta non sfocia nel riscatto o nella tragedia ma sfuma nel crepuscolo dell’inazione, rinuncia al tempo della Storia per indugiare nel tempo della natura: «Sull’anello delle mura, e ovunque erano rimasti ancora gli ippocastani, qualche frutto dalla buccia spinosa cadde e si spaccò sul terreno, e qualcuno passò a raccogliere la buccia e il frutto, che servivano per far fuoco. Uomini seduti al sole aspettavano con stanca pigrizia».