C’era un tempo in cui, nel mondo del cinema, la parola ‘taglio’ si riferiva soltanto al montaggio di un film. Oggi, quando tale parola risuona, significa che anche qui stanno arrivando mutilazioni ai finanziamenti pubblici e privati. Festival e rassegne sono tra i più colpiti nel settore. Basterà pensare al TFF di Torino, costretto a risparmiare persino sulle tre lettere – totem rosse, da anni collocate per l’occasione nella centrale piazza Castello. Se il TFF piange, il padovano Detour, Festival del cinema di viaggio, non ride. Dopo due edizioni che hanno visto il pubblico rispondere oltre ogni aspettativa, ecco i tagli per l’edizione numero tre. Un concessionario di automobili di fascia alta era stato fin qui il maggior finanziatore. Intelligente operazione di immagine come alternativa alla pubblicità tradizionale. Per il 2104 stop dalla casa madre, così afferma il concessionario, e soldi da destinare a manifesti e spot televisivi. Brutta botta, cui il festival ha reagito non solo rimanendo in piedi, ma uscendo a testa alta da quattro giorni (16/19 ottobre) all’insegna della grande qualità. Il Concorso ha visto sette film in gara e l’Omaggio all’Autore dedicato al regista americano Jeff Nichols; il fitto calendario degli Eventi Speciali ha proiettato Voyage en Arménie e Au fil d’Ariane del regista francese Robert Guédiguian, padre armeno e madre tedesca. Nell’ambito del concorso, due film meritano senza dubbio di venir definiti sorprendenti.

Il primo, Cherry Pie, ha visto lo svizzero Lorenz Merz, esordiente per quanto riguarda il lungometraggio, indossare i panni dello sceneggiatore, del direttore della fotografia e del regista. Lolita Chammah, figlia di Isabelle Huppert, è Zoe, giovane donna in fuga. Se da qualcosa, da qualcuno, da se stessa, il film non lo esplicita. Perché non serve. Il racconto si limita a seguire Zoe, i suoi lunghi silenzi interrotti soltanto da scampoli di parole a volte gridate, più sovente sussurrate a sé stessa. Silenzioso, lontano, vuoto, è anche il mondo che scorre accanto e intorno alla donna: la circonvallazione di una città, il supermercato in cui si ferma per comprare qualcosa da mangiare; la visione quasi esoterica, a bordo di un traghetto, della donna che le ‘lascerà’ l’auto e il cappotto; la stanza d’albergo dove trascorrerà le sue giornate e farà sesso con se stessa. Zoe ha sempre con sé un sacchetto di plastica. Lo spettatore non cerca le ragioni di questa e di altre scelte. Segue la bravissima Lolita Chammah come fa la macchina da presa, partecipa provando a immaginare il compimento della storia. La giuria, presieduta dal direttore della fotografia Luca Bigazzi, ha assegnato a Cherry Pie il Premio Speciale della Giuria. La motivazione: «… Un film ellittico che compie un atto di coraggio e fiducia nello spettatore, costringendolo a uno sforzo attivo nel processo di costruzione narrativa».
Il Premio del Pubblico è andato a The Stone River del fiorentino Giovanni Donfrancesco. Lo si potrebbe definire, e non a caso il titolo del film ammicca, ‘Spoon River del marmo’. Un vecchio scultore cammina in mezzo alle tombe innevate del cimitero di Barre, cittadina del Vermont, Stati Uniti. La maggior parte delle lapidi porta cognomi italiani ed europei. Non a caso, perché, tra fine Ottocento e inizi Novecento, arrivarono a Barre, dalle Alpi Apuane e dall’Europa, centinaia di scalpellini per lavorare in quelle che sarebbero divenute le cave di granito più grandi del mondo.

La scelta narrativa di Donfrancesco, a metà tra film e documentario, poggia su un meccanismo tanto semplice quanto efficace. I protagonisti sono gli attuali cittadini di Barre, ma ciò che leggono, in campo e fuori campo, è tratto da una serie di interviste fatte agli uomini, alle donne, ai giovani della cittadina negli anni ’30 del secolo scorso. Le storie di lavoro, di anarchia, di malattie e morti causate dalla micidiale polvere di granito, si alternano alle sequenze del vecchio scultore dentro il cimitero. Ogni sua sosta è ricordo, di una persona o di un episodio, che appartiene a quegli anni. L’ora e mezza di film, senza mai concedere spazio alla retorica, fa riemergere gli aspetti umani, politici e sociali di un periodo sconosciuto ai più, fuori dai confini degli States. Detour, non va dimenticato, nasce come festival del cinema di viaggio. Per quanto la parola viaggio, fin dalla prima edizione, non si traduca sullo schermo in chiave turistica o avventurosa. Dunque lo sguardo del festival non poteva trascurare i ‘nuovi’ migranti: profughi via terra e via mare, inseguiti dalla morte, decimati dalle bombe e dal cinismo degli scafisti; schiavi incatenati alla prostituzione, al piccolo spaccio, ai laboratori clandestini; prigionieri senza fine pena dei racket dei mestieri di strada.

A parlare di nuova migrazione, con scelte nettamente diverse quanto a genere e trama, sono El Rayo (coproduzione lusitana e spagnola) di Fran Araújo e Ernesto de Nova, e Hope (Francia) di Boris Lojkine, cui sono stati assegnati rispettivamente la Menzione Speciale della Giuria e il Premio per il Miglior Film in Concorso. El Rayo, usando con garbo e intelligenza la chiave della commedia, racconta la vicenda di Hassan, emigrato dal Marocco alla Spagna tredici anni prima. Nonostante abbia un regolare permesso di soggiorno, è rimasto senza lavoro. Decide, allora, di tornarsene a casa. Ma in sella a un vecchio trattore comprato con i soldi messi da parte, che gli servirà per il mestiere di agricoltore. Qui comincia l’avventura, fatta di incontri, strade secondarie dove il trattore (battezzato El Rayo) può circolare, lavori saltuari per mettere benzina nel motore e qualcosa nello stomaco, guasti meccanici, intoppi. Il film, costato centomila euro, ha una caratteristica particolare. Araújo e de Nova la spiegano così «Quando abbiamo scoperto la storia di Hassan, ci ha colpito, e abbiamo deciso di partire con lui e con il trattore che difficilmente raggiunge i trenta chilometri all’ora… Il risultato è un road movie… dove tutto quello che accade è vero, e tutti i personaggi che compaiono interpretano loro stessi… La sfida più grande per la regia era armonizzare il rigore formale e della fotografia con la libertà di filmare per strada, con personaggi reali e un alto livello di improvvisazione».
Ben altra e crudele storia quella di Hope, nome della protagonista del film. Lei, nigeriana, si unisce, sotto spoglie maschili, a un gruppo di migranti che, dal Sahara, inizia il suo viaggio clandestino verso l’Europa. Viene scoperta, e solo l’intervento di Léonard, camerunense, impedisce agli uomini di violentarla e ucciderla. Insieme proseguono un cammino durante il quale Léonard non mostra comprensione, amicizia, umanità. A lui interessa solo il denaro che gli servirà una volta in Europa. Appellandosi senza esplicitarlo a un debito di riconoscenza, costringe Hope a prostituirsi nei posti in cui si fermano. La forza, il coraggio, del lavoro di Lojkine, sta nel mostrare il disprezzo, la violenza, la mancanza di pietà degli sfruttatori e dei miseri criminali incontrati da Hope e Léonard sulla rotta del loro calvario. Troppe volte, come già ha fatto Léonard, la donna sarà ridotta a meno di nulla in nome del fatto di essere «una nigeriana». L’amore tra i due arriverà improvviso, germoglio dalle radici del dolore, senza possibilità di crescita.
Forse trascurato a torto dalla giuria del festival For those who can tell no tales (Per coloro che possono parlare e non lo fanno), di Jasmila Zbanic, regista vincitrice nel 2006 dell’Orso d’oro alla Berlinale con la sua opera prima, Grbavica. Una livida Visegrad, Bosnia Erzegovina, attende Kym, turista australiana attratta dalla lettura di una guida. Nell’accogliente albergo che ha scelto, Kym non riesce tuttavia a prendere sonno. Gli spettri di una guerra terribile si concretizzano il giorno dopo, scoprendo ciò che lì è successo; la spingono a prenderne coscienza. Continueranno a seguirla, quando la sua vita non somiglierà mai più alla vita precedente. Vedremo in Italia i film passati sugli schermi di Detour? Ai distributori più sensibili la sentenza.