Dopo quasi vent’anni di assenza in libreria, un’antologia ottima e massiccia riporta in Italia il poeta più amato (e no) dell’America del Novecento, vero bardo nazionale i cui versi sono o erano sulla bocca di tutti: «Ho avuto un bisticcio d’amante col mondo». È l’inafferrabile Robert Frost, e il «gelo» del cognome ha un’eco nel ben trovato titolo della magnifica antologia curata da Ottavio Fatica con la traduzione elegante e brillante di Silvia Bre: Fuoco e ghiaccio (Adelphi «Biblioteca», pp. 547, € 30,00).

Raccoglie circa 140 poesie (purtroppo senza un indice alfabetico in fondo), molte qui tradotte per la prima volta, contro la settantina che ci aveva regalato Giovanni Giudici nella sua antologia einaudiana e poi mondadoriana, Conoscenza della notte. Entrambi i titoli dicono qualcosa sull’ambiguità di questo poeta da cartolina natalizia che nasconde scherzetti diabolici e davvero «conosce la notte», come i critici accademici (ed esistenzialisti) del dopoguerra si ingegnarono a sottolineare. Per una poesia tutta rose e fiori non c’era allora posto. Giudici addirittura non incluse in Conoscenza della notte la famosa «Betulle», troppo smaccatamente celebrativa: «Quando vedo oscillare le betulle / tra le file di piante dritte e scure, / immagino un ragazzo a dondolarle…». Cioè a salire sulle betulle e farle un po’ per volta scendere, «domarle»: «Un tempo ho dondolato anch’io betulle. / Per questo sogno di tornare a farlo». Un pezzo d’antologia. «Vorrei lasciar la terra per un po’ / e poi tornarci per ricominciare…».

Dialogò con Pound, Eliot, Williams

Come si capisce dai sonori endecasillabi di Silvia Bre, eccoci davanti a una poesia volutamente antimoderna nella forma e bucolica nel contenuto. Un quadretto campestre. E ampio: una sessantina di versi meditativi che passano dal concreto alla riflessione e in cui ci parla un io preciso, apparentemente scoperto, senza infingimenti. Da ciò il ruolo assegnato da certa critica a Frost di campione della tradizione contro le innovazioni scombussolanti dei quasi coetanei Stevens Eliot Pound Williams, con cui invece egli mantenne sempre un dialogo, esprimendo una crisi non solo moderna in una poesia in fondo virgiliana, augustea, ma innervata da ansie nemmeno tanto segrete. Frost spesso parla lui o trascrive racconti e dialoghi di altri, uomini e donne, in vere e proprie ecloghe che procedono per diverse pagine, sempre pacatamente ma con guizzi di umorismo, quando non di calma disperazione. Non è sempre facile intendere questi testi apparentemente lineari e descrittivi, perché hanno i movimenti del discorso comune, che non ci aspettiamo di incontrare sulla pagina con le sue ellissi e scatti.

La famosa poesia in rima «Sosta vicino a un bosco in una sera di neve» (1922) inizia con una relativa, trascrive un monologo interiore: «Whose woods these are I think I know, / His house is in the village though». Rima baciata, come non ricordarla? Quanti bambini possiamo sentire su YouTube che recitano i sedici versi di questa «Stopping by Woods»… Silvia Bre traduce: «Dovrei saperlo di chi è il bosco. / Però sta di casa in paese; / non vedrà se mi fermo a guardare / il suo bosco riempirsi di neve». In fondo, nella sua semplicità, è spiazzante. Il pensiero del parlante, comunissimo, evoca sotto traccia la scena. Non dice: «Una sera mi sono fermato accanto a un bosco su cui cadeva la neve».

Gli viene in mente che forse conosce il proprietario. Così lo sfondo è disegnato per gli eventi semplici e straordinari che seguono. Il viandante sul suo calesse si ferma. Perché si ferma? Non sarà il caso di proseguire? Se si ferma troppo a lungo davanti ai «boschi belli, scuri e profondi» chissà cosa si incepperà nell’ordine della sua vita. Sullo sfondo c’è addirittura eros che combatte contro thanatos che per un momento, come vuole Freud, sta per asserire il suo primato.

Che scherzi ci fa Frost in questi e altri versi che si possono leggere debitamente incorniciati presso il caminetto in tante casette del New England. Questa la sua regione di elezione, dove fece l’agricoltore senza troppa fortuna, conobbe lutti e traversie familiari, insegnò regolarmente filosofia (Emerson) e letteratura, parlò con politici e scienziati a volte riprendendone immagini e riflessioni nel suo canto. Nove raccolte, dal 1913 al 1962, le prime edite in Inghilterra quando era quasi quarantenne, e infatti lì si era stabilito come Pound e Eliot, ma presto rientrò ed ebbe fortuna e riconoscimenti a non finire.
Eppure la seconda raccolta, North of Boston (1914), non è meno scura di tono e qua e là beffarda della futura The Waste Land di Eliot: quasi tutte ecloghe che registrano le parole che uomini e donne si scambiano in un ambiente rurale, molto preciso ma anche senza tempo. Per esempio in «Morte di un bracciante» una giovane coppia parla di un lavorante e ne descrive il carattere chiedendosi se accoglierlo in casa ora che sembra alla fine, e si interroga su cosa sia «casa». Warren dice «Casa è dove, quando devi andarci, / devono accoglierti». Mary replica: «Io direi invece / che è qualcosa che non devi meritarti».

Sono le sentenze che Frost sparge senza parere nei suoi racconti e che una volta incontrate non si dimenticano. Ci toccano con la loro verità. Ma ci sono due modi di vedere la casa.

Come ci sono due modi di vedere un muro in «Muro da riparare», altra ecloga celeberrima. E politica. I due vicini in primavera rimettono a posto il muro. Il parlante vorrebbe farne a meno, non hanno mucche, solo pini da una parte e meli dall’altra. Il vicino gli pare un troglodita, e insiste: «Buoni confini, buoni vicini» («Good fences make good neighbors»). Insomma, ci sono liberali e conservatori, democratici e repubblicani, e dopo tutto il troglodita ha le sue ragioni da difendere. Privatezza, proprietà, sovranità. Frost, che sa cantare nella tradizione di Shelley, è anche erede della visione puritana che vede in ogni evento un senso ulteriore, un messaggio.

I boschi pieni di neve sono la selva oscura, la pulsione di morte, a cui resistiamo insistendo sul confine, cioè la cultura, ma non senza ammetterne il fascino mortale. Il muretto fra i due vicini è la distanza necessaria, abbattendo la quale si ha la perdita dell’individualità, oggi la guerra. Per cosa si fanno le guerre se non per abbattere o difendere dei confini? Putin abbatte dei confini, sostiene, per difendere i suoi. In «Muro da riparare» entrambi e nessuno dei due compari ha ragione. Ma ce l’ha un po’ di più chi riafferma, contro la natura, la cultura che si regge su buoni confini. Tutto sta nel mettersi d’accordo quali sono. E allora ogni primavera rieccoci a compiere l’apparentemente inutile operazione.

In rete si può vedere Frost che, ottantottenne, legge all’insediamento del giovane Kennedy. Aveva preparato una poesia gratulatoria abbastanza convenzionale ma il tempaccio e l’età gli resero arduo compitarla. Ripiegò recitando a memoria una poesia patriottica del dicembre 1941, «Il dono totale», sul destino nazionale: «Era nostra prima che fossimo suoi. / Era la nostra terra più di cent’anni / prima che fossimo il suo popolo…».

Nostra? Frost è consapevole del paradosso: «L’atto del dono fu molti atti di guerra». Breve problematico splendido testo: «The land was ours before we were the land’s». Cioè la proprietà legale assegnata ai coloni nel 1620 sarà sostituita e capovolta quando nel 1776 essi diventeranno della terra, la sposeranno, saranno da essa posseduti: «Finché trovammo salvezza nella resa». Frost è poeta di semplici paradossi. Il paradosso è una figura retorica che desta l’attenzione di chi legge e resta nella memoria. I coloni erano inglesi, più tardi divennero «americani».

Un tremendo fatto di cronaca

Fuoco e ghiaccio ospita a riguardo una poesia tremenda, «The Vanishing Red», del 1916, su un mugnaio che ammazza un indiano: «Pare che fosse l’ultimo pellerossa / di Acton. E che il mugnaio abbia riso – / se vuoi chiamare riso un simile versaccio». Un fatto di cronaca che il narratore riferisce senza commento: «È una storia troppo lunga per entrarci… / di chi fu a cominciar fra le due razze». Come Faulkner riferisce senza commento in «Settembre arido» un linciaggio nel Mississippi.

Frost è spiazzante. Guarda, riferisce. Si vantava a ragione di aver saputo cogliere come nessun altro, pur nella misura del verso, spesso rimato, il «suono del senso», il vero andamento del pensiero fatto parole: assolutamente naturale, eppure entro confini ben segnati. Fra i suoi motti micidiali: «Scrivere poesie senza rima è come giocare a tennis senza rete». E: «La poesia è ciò che si perde nella traduzione».

Il che non è vero per l’ammirevole lavoro di ricamo compiuto da Silvia Bre su 140 poesie spesso lunghe e complesse e di non facile decifrazione. Nulla è infatti più difficile da capire del parlar semplice, costellato poi di modi di dire regionali. Però chi legge Fuoco e ghiaccio troverà a ogni pagina di che ringraziare Frost e i suoi ricreatori italiani. Ma ci vuole attenzione, e suggerirei di gustare il banchetto un po’ per volta, a stomaco vuoto, per godere di quei frissons gelidi che appunto il gelido buonuomo Frost non manca mai di comunicare.