Per qualsiasi lettore italiano che abbia vissuto un’adolescenza emotiva nei lunghi anni novanta e che proprio in quella decade si sia accostato al cinema affranto e romantico di Derek Jarman, le traduzioni tempestive operate dalla Ubulibri sugli scritti del regista rimangono volumi memorabili.
Il formato difficilissimo, a prova di scaffale, le copertine iconiche (strepitosa quella di A vostro rischio e pericolo, calcata su un fotogramma del Caravaggio con Sean Bean), la calendarizzazione sincrona rispetto alle uscite oltremanica: tutto garantiva un’attualità necessaria a quei libri preziosi, il valore testimoniale di una realtà urgente, di un presente incendiario trasportato dalle loro pagine, un’eco prossima, una risacca sonora nella realtà sonnolenta della provincia cannibale fra Torino, Roma e Milano.
A tal punto, anzi, quei testi sfrontati – da Modern Nature in poi – si imposero come pietre miliari, inseriti nella serie ‘bianca’ dell’editore accanto alle bibbie di Deleuze o Peter Brook, da aver forse assecondato nel nostro paese il silenzio rispetto alle fatiche letterarie di Jarman, un oblio seguito alla sua morte per le complicanze dell’Aids, avvenuta in anticipo doloroso rispetto alla scoperta delle terapie retrovirali nel già lontano 1994.
Solo durante il 2007, infatti, una declinazione meno glamorous dello script per il suo The Last of England, a cura della Alet di Padova, si è affiancata all’offerta filologica, in termini di dvd, presentata a inizio millennio dalla meritoria etichetta Rarovideo, in grado di selezionare nell’ampia filmografia del regista una compilation intelligente di Super8 (In the Shadow of the Sun, The Art of Mirrors, Glitterbug, per citare solo i più noti), oltre che il capitale Jubilee, vera e propria svolta creativa per temi, ambizioni, per sforzo finanziario, per accoglienza festivaliera; e del resto una preferenza verso la produzione su pellicola dell’autore era stata siglata nel 2005 dall’inclusione di uno studio a lui dedicato per mano di Gianmarco Del Re nella gloriosa collana milanese dei «Castori», nonostante la consistenza borderline delle sue sequenze, fra iconoclasmi underground, video-arte e cinema d’essai.
Poi il silenzio, almeno fino a oggi, quando nuove luci sono state accese nell’Italia nerissima di questi mesi sulla sua attività al di fuori del grande schermo, nello stesso momento in cui la Penguin ha scelto di accoglierne il corpus ‘su carta’ nel canone contemporaneo dei suoi Vintage Classics: quasi che – nel rampante, rabbioso conservatorismo dilagato sulla scena politica europea – la voce dell’irriconciliato intellettuale inglese assumesse un’inedita pregnanza, una franchezza immediata.
Tale ‘ipotesi di necessità’ è ribadita, per via di paradosso, dalla natura di objet trouvé della prima di queste riemergenze e cioè l’incisivo album di bozzetti, eseguiti dall’artista nel 1982 per il balletto The Rake’s Progress, produzione del Maggio musicale concertata da Riccardo Chailly e diretta da Ken Russell (col quale Jarman aveva collaborato per I diavoli). La scoperta, inattesa almeno per la quantità dei materiali, è merito di Moreno Bucci, giunto alla fine della monumentale catalogazione dell’archivio del festival fiorentino per gli anni compresi fra 1933 e 1983: un’impresa consegnata a cinque, colti volumi che vantano – oltre alla precisione filologica del curatore – il garbo editoriale della Olschki, lusso accordato in epoca di vacche magre per le avventure culturali dalla tradizione munifica, prestigiosa di un ente come la Fondazione Carlo Marchi – I disegni del Teatro del Maggio Musicale fiorentino Inventario V (1973-1983), 2 tomi, pp. XXVI-756, 1692 figg. n.t. a colori e 2 in b/n.
Proprio gli studi per l’allestimento della ‘favola in tre atti’ (un esercizio d’après Hogarth) raccontano il conflittuale rapporto dell’autore con la politica del suo tempo. Il centinaio di fogli – figurini e idee per la scenografia – ambientano infatti il libretto di Auden e Kallman in una Londra punk e apocalittica, popolata da richiami alle eleganze rococò, da ritratti della famiglia reale, da angeli caduti, profili reaganiani (e dalla rabbia anti-Tatcher) duplicando così il composito immaginario dei suoi primi lungometraggi fra la fine dei Settanta e la metà degli Ottanta, dai video girati per i Sex Pistols a quelli per gli Smiths.
Ha quindi in fondo una sua coerenza poetica che, mentre si rendono note queste carte feroci e tenere (ennesima prova della ricca storia del Maggio, col quale Jarman si sarebbe trovato a collaborare ancora per L’ispirazione di Sylvano Bussotti), si torni a dar notizia del periodo estremo della vita del regista, quello legato alla spiaggia di Dungeness e al cottage acquistato nel promontorio del Kent, fulcro abitativo dei suoi ultimi anni in compagnia di una famiglia eterogenea, da Tilda Swinton all’irresistibile Keith Collins, da Karl Lydon alle devote Sisters of Perpetual Indulgence. Nella sua geografia, infatti, il luogo fa la prima comparsa proprio in relazione all’opera conclusiva del tempo ‘apocalittico’ nella sua ispirazione e cioè il già menzionato The Last of England, film per il quale Jarman aveva in origine pensato di servirsi dello sfondo deserto di quel litorale, a mo’ di panorama ricorrente. Sebbene un simile intento fosse destinato a ridimensionarsi nella fase operativa del progetto, quel tratto di costa avrebbe da allora in poi offerto all’artista l’approdo di un rifugio sicuro, sempre più frequentato in dialettica opposizione con lo studio londinese a Phoenix House e in un malinconico accordo col peggiorare lento della malattia, diagnosticatagli nel dicembre 1986.
Meritorio è pertanto che nottetempo abbia tradotto per la prima volta il volume fotografico The Garden – Il giardino di Derek Jarman, trad. Fiorenza Conte, fotografie di Howard Sooley (con oltre 150 immagini, 90 a colori), pp. 144, euro 28,00) –, pubblicato dopo la scomparsa del regista ma composto attorno a un palinsesto autografo, dal tono inevitabilmente testamentario. Le immagini riunite con amichevole discrezione da Sooley – e associate a quelle pagine – celebrano infatti l’astratta bellezza di uno spazio tanto simbolico, animato dalla presenza luminosa ed emaciata dell’uomo in limine mortis, ormai scavato dall’HIV ma in quieta pace nell’arcobaleno di colori fioriti, raccolti con ordine in un’oasi esigua, fra rocce, ferri e detriti marini.
A metà hortus conclusus, a metà cimitero, in parte Eden, in parte Getsemani, quel recinto ordinato tutt’attorno al povero capanno, ridipinto in giallo e nero, era d’altronde davvero servito da fondale per un’altra pellicola di Jarman destinata a una perfetta omonimia con il libro appena trasposto in italiano ma unita, in principio, all’eloquente intestazione di Borrowed Time: non stupisce dunque che il memoriale sofisticato e rapsodico, in consapevole aemulatio della tradizione tutta inglese – e al femminile – di racconti sui giardini (da Gertrude Jekyll a Beth Chatto), si legga, in tralice, come un requiem sommesso, in cui i riferimenti sepolcrali – le lapidi, i rami come ossa sbiancati dalla salsedine, lo scorrere inarrestabile delle stagioni, le azioni violente di insetti e parassiti – ricordano innanzitutto la transeunte qualità della carne.
Da sempre desideroso di trasformarsi in giardiniere, secondo quanto confessato a Maureen Cleeve nel 1987, Jarman avrebbe alla fine scoperto l’inutilità di quest’ultima farmacopea (confessione affidata invece alla partitura diaristica di Modern Nature); tuttavia l’attenta armonia realizzata fra i ciottoli del Kent contro la pressione di un vento incessante – un mandala fissato perfino in un’istallazione site-specific per il Design Museum di Londra nel 1991 – resta una fra le più intense creazioni dell’artista; è felice dunque questa sua riscoperta, a chiudere – anche per il pubblico nostrano – la trilogia ideale formata con la tavolozza di Chroma e la superficie kleiniana, assoluta del mediometraggio Blue.