Artista-problema, André Derain torna a interrogare nella magnifica mostra che il Centre Pompidou dedica alla sua opera giovanile: André Derain 1904-1914, la décennie radicale (fino al 29 gennaio, catalogo Centre Pompidou). Problema, perché? Una chiave di accesso, a cui indirizza la curatrice Cécile Debray nell’introduzione al catalogo, è il parallelo, solo apparentemente paradossale, con Marcel Duchamp, stabilito da Philippe Dagen in un saggio del 1987. Entrambi disperano della pittura, della sua funzione storica, pur da versanti opposti: alla tabula rasa duchampiana, all’asciugarsi definitivo, lì, dell’odore di trementina e alla fuga ironica nel pensiero che esso comporta, corrisponde – più difficile – l’inattualità di Derain, la sua impossibilità a rinunciare, il suo testardo restare: per Derain la pittura è una lingua morta, un fossile, e un pittore di sangue come lui non può che rifarla sempre di nuovo, fingere a ogni opera una sua rinascita. A ben vedere perfino il suo periodo di maggiore successo mondano, gli anni venti, quando egli sembra cedere alla facilità realizzativa, alle seduzioni del giro collezionistico, al gioco degli «antichi maestri», è sotto il segno del dubbio esistenziale, del «trouble moderne» con cui Suzanne Pagé volle intitolare, nel ’95, al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, quella che resta la più importante mostra a Derain dedicata.
Giacometti e tre pere
Il più sensibile interprete dello ‘smarrimento’ di Derain – smarrimento anche all’origine della decisione cretina di partecipare, nel 1941, al viaggio in Germania di alcuni artisti francesi, per la sua vita fatale – è stato Alberto Giacometti: in un articolo del ’57 – dove racconta come, venti anni prima, era rimasto «bloccato» dinanzi a «tre pere su un tavolo contro un immenso sfondo nero» – scrive: «ogni opera era per lui una sconfitta ancora prima che la iniziasse», e che fuori da questo sentimento di sconfitta non è possibile farsi una ragione dell’arte sua. In questo senso per Giacometti Derain va preso tutto intero, «amo l’opera di un pittore solo quando mi piace il suo quadro più brutto, il peggiore»: egli spezza una lancia, anzi, a favore dell’ultima stagione – quando i fallimenti di Derain sono più frequenti e in bocca si fa più amaro, la realtà diviene fantasma, di vetro su nero lavagna –, restando meno attratto, invece, dal celebrato periodo fauve.
Come Ducham pittore
Alla luce di Giacometti – e avendo ancora negli occhi, perdipiù, la mostra, da poco chiusa, della Ville de Paris, in cui le opere dell’artista svizzero erano messe a confronto, appunto, con quelle di Derain, e di Balthus (stretta lignée di modernità a contraggenio) – il Derain giovanile proposto al Pompidou risulta in tutte le sue potenzialità… di scacco: fin dagli esordi vediamo un artista che, più di trovare, cerca, e in questo cercare brucia le tappe, diverge, scansa: una «traversée accélérée» delle avanguardie parigine d’anteguerra, che lo accomuna proprio, dice bene Cécile Debray, al Duchamp pittore, a cui lei stessa ha dedicato, due anni fa, una mostra che resterà memorabile, sempre al Pompidou.
Mentre i compagni di strada Matisse e Picasso amministrano da subito i propri raggiungimenti, con un grado di concentrazione massimo su quello che, organicamente, possa sortirne, Derain si lascia condurre dai dubbi, dal vivere in attesa, dall’esperienza ardente, come la scoperta, prima di tutti gli altri (su input di Vlaminck), degli idoli africani e del loro significato montmartrois. Con una cernita di opere ben scelte, la mostra corre lungo i diversi cambiamenti di scena, dal «realismo libertario» 1903-’04 (intorno alla grande, umoristica, manettiana «carta da gioco» Le Bal à Suresnes) fino al «realismo magico» 1912-’14 (sigla deviante: perché non il classico «periodo gotico» o «bizantino»?). Un focus è dedicato al rapporto di Derain con la fotografia, che, dalle ricerche condotte, risulta ben più centrale – come fonte letterale, ai fini della composizione di immagine e anche nel suo valore autonomo – di quanto non si credesse. È interessante studiare come anche nei momenti di maggiore uniformità di scuola, quando le scoperte condivise con i coetanei – prima Vlaminck, poi Matisse (che tanto coetaneo non era: undici anni maggiore), poi Picasso e Braque – staccano una poetica generazionale e militante, Derain non rinunci mai al suo differenziale saturnino.
Collioure, prova del fuoco
Nello struggimento misurato di La Seine au Pecq, 1904, si calcola tutta la distanza dalla pittura ‘gestuale’ di Vlaminck, colui che aprì gli occhi a Derain negli anni di Chatou. Soggiorno dell’estate 1905 a Collioure, in Occitania: cade la «prova del fuoco», l’esperienza di lavoro accanto e insieme a Matisse. Derain rivela un eccezionale talento nei contrasti ottici dei colori puri, ma si mostra abbastanza insensibile alle loro potenzialità di arabesco, sviluppate invece da Matisse: il dare e avere tra i due risulta più chiaro oggi, sulla scorta delle ricerche di Rémi Labrusse e Jacqueline Munck (Matisse-Derain, la vérité du fauvisme, Hazan 2005).
Un altro caso di vicinanza discorde è nella relazione con Braque. Primavera 1909: i due lavorano spalla a spalla nel parco di Carrières-Saint-Denis, presso Chatou. Le tele derivate mostrano che Derain non ha preoccupazioni «di laboratorio» come Braque, il quale comprime in superficie lo spazio, lo rende tattile, gioca con la cristallizzazione: il vocabolario cubista serve a Derain per sintetizzare al massimo grado la natura entro i limiti forniti dai concetti tradizionali di spazio e forma, per rendere il suo sguardo spoglio e aperto all’‘illuminazione’.
Ogni insieme di opere dice un problema, questo fa il nitore della mostra. La stessa stagione fauve, che occupa il campo più vasto, è articolata secondo diverse emergenze. Si è detto di Collioure. A seguire, l’influenza dell’opera di Gauguin, conosciuta per via di Gustav Fayet, il collezionista della produzione delle isole Marchesi, e della vasta retrospettiva del ’06 al Salon d’Automne, è condivisa ugualmente con Matisse, dando luogo in entrambi a soluzioni miste, un fauvismo ‘edenico’ per il quale Claudine Grammont, in catalogo, usa la formula «culture de l’amalgame», e di cui la grande Danse di Derain (collezione privata) è, in mostra, esempio non troppo felice: perché sceglierla come logo? Non è nell’accezione simbolista che Gauguin conta per Derain, piuttosto, in associazione con Cézanne e con l’arte negra, nel condurlo a un nuovo ordine, atto a trarlo fuori dal decorativismo cromatico fauve. Se di quest’ultimo è documento sublime la serie delle vedute londinesi 1906-’07 (commissionate da Ambroise Vollard: l’afflato cosmico di Turner si ripresenta… a colori), la ricerca di una maggiore strutturalità passa per il soggiorno all’Estaque, il sito cézanniano a nord di Marsiglia, agosto 1906: opera-chiave, nella sezione di riferimento, Trois personnages assis dans l’herbe, con un pronunciato contorno alla Gauguin che rende ben più costruttivo il colore à-plat. Ma l’influenza di Gauguin su Derain dà il suo meglio nel campo della scultura e della xilografia, come dice la sala imperniata sull’idolo modernista in pietra Nu debout – e basta avere ripassato, proprio in contemporanea nella grande mostra del Grand Palais, l’intera parabola di Gauguin, per essere confermati che la sua vera grandezza è nel legno a intaglio e nella stampa da legno.
Dice Gertrude Stein
Certo, le meravigliose prove primitiviste di Derain implicano, insieme, una personale interpretazione, e della scultura africana, di cui poté avere completo discernimento nelle visite alla sezione etnografica del British Museum, e di Cézanne. Già John Golding, nel suo classico sul cubismo del 1959, chiarì come Derain sia stato il primo a rendere storicamente attiva la lezione del maestro di Aix: in anticipo su Braque e su Picasso, ma senza tirarne poi le estreme conseguenze. Considerando anche la sua precedenza africanistica, si può capire l’affermazione di Gertrude Stein «il Cristoforo Colombo dell’arte moderna» con, in aggiunta, «ma sono gli altri che traggono profitto dai nuovi continenti». Si giustifica anche la forzatura di Apollinaire che il cubismo «fu dapprima elaborato da André Derain». Ne sapremmo di più senza l’autodafé dell’inverno 1907-’08 nel quale Derain distrusse, tra l’altro, una serie di grandi tele allegoriche intitolate Baigneuses. Siamo sul filo del tempo: nel climaterico 1907 compare, oltre alle picassiane Demoiselles, il monumentale espressionismo negro del Nu bleu di Matisse, dell’anno dopo è la personale di Braque da Kahnweiler, dove si parla per la prima volta (Louis Vauxcelles) di «cubes». Incentrata sulle altre Bagnanti di New York e di Praga (rispettivamente 1907 e 1908), la sala dedicata al Derain cézanniano dà conto di un pieno intendimento, da parte sua, della posta in atto: seppure, ancora con la Stein, intendimento di natura, più che intellettuale, «temperamentale».
Cassis, Martigues, Cagnes, Cadaqués: ogni tappa, fra il 1907 e il 1911, segna, con accenti diversi, il rapporto contrastato con il cubismo. Nel suo pervicace attaccamento alla realtà, di cui descrive, nel modo più potente e calibrato, il tracciato geometrico libero da orpelli, Derain sembra avvertire i rischi decorativi contenuti nel troppo spregiudicato uso delle scoperte cubiste, come la simultaneità di visione. Dirà: «Bisogna avere penetrato intimamente la vita delle cose, per dipingerle. La forma per la forma non ha alcun interesse». In alcuni quadri del maggio-agosto 1907 a Cassis verso Marsiglia, dove il paesaggio si rivela una visione subitanea, un ‘improvviso’ come la scena teatrale appena aperto il sipario (gli alberi ai lati fanno infatti da quinta), già si annuncia lo sguardo un po’ allucinato del momento in assoluto più alto dell’arte di Derain: quello «gotico», 1912-1914, con cui si chiude la mostra.
«Cose che incantarono la nostra giovinezza dalle pagine delle Soirées de Paris, la rivista di Apollinaire»: così Roberto Longhi, nel triste necrologio di Derain «pittore dimenticato», ottobre ’54, si riferiva (parlando anche a nome, diremmo, di Morandi e di Carrà) alla svolta «gotica», che preferiva chiamare, chissà perché, «romanica». Alla fine del 1910 Derain aveva lasciato Montmartre per trasferirsi sulla Rive Gauche: rinunciava alle frequentazioni quotidiane con gli amici cubisti. Sganciandosi dall’arte di trincea, comincia un periodo di isolamento in cui matura una nuova visione, che nell’estate del 1912, eremita fra «tanti alberi, tante rocce, tanta luce», a Vers nella valle del Lot, fiorirà in paesaggi e nature morte di singolare, stregata novità. Da adesso in poi le conquiste della fase cézanniano-cubista non saranno rigettate, ma economizzate in un gioco di arcane purezze volumetriche che sostiene icasticamente l’integrale ripresa di possesso del dato di realtà. La tavolozza si spegne, arricchendosi in profondità con la comparsa di blu acciaio, verdi smeraldo, grigi ferrigni, neri pulsanti come la notte. Sbucano strane referenze esoteriche. Si apre un confronto di verità con gli artisti del passato che, in modo un po’ scomposto, Derain ha eletto a numi tutelari: dai Lorenzetti a El Greco a Ingres… Soprattutto, è il recupero della più scelta tradizione gotica, vera classicità dell’arte francese, a improntare questo acme d’anteguerra, con figure allungate e un senso ascensionale che dà sul mistico. Anche qui Derain, storicamente, va in avanscoperta, anticipando tutto, dal Picasso neoclassico alla Metafisica, dai Valori Plastici al Realismo Magico. Ma perché di questa stagione, in mostra, mancano capolavori forse non così difficili a ottenersi, come gli introibi (del 1911) Le jouer de cornemuse (Minneapolis) e La table (New York), come L’offrande (Brema), il Portrait de Paul Poiret (Grenoble), ma soprattutto l’enigmatico Chevalier X (San Pietroburgo) e il secco, nero, «spagnolo» Portrait de Iturrino, di proprietà dello stesso Pompidou? Il sospetto è che non si volesse sbilanciare a discapito dei momenti di avanguardia, riflesso di un pregiudizio modernista tardo a morire. Ma in realtà Derain, come recita il titolo della recente biografia, da Hazan, di Michel Charzat, resta, e cresce, nella sua veste di «titano fulminato».