Nel Dizionario dei simboli di Juan Eduardo Cirlot, alla voce Travestimento si legge: «Il travestimento o, meglio, il travestitismo, ha la sua forma fondamentale nell’indossare abiti dell’altro sesso. Secondo Mircea Eliade si tratta di un rituale analogo all’orgia, frequentemente praticato in relazione a essa. Tali pratiche tendono alla riattivazione della presunta androginia primordiale, cui si allude nel Simposio di Platone». Questo passaggio sembra indirettamente rimandare all’opera, costellata di criminali che si dedicano al travestitismo, di Jean Genet (1910-1986) di cui esce, dopo la pubblicazione del Théâtre complet nel 2002, un volume che raccoglie i Romans et poèmes nella prestigiosa «Bibliothèque de la Pléiade», a cura di Emmanuelle Lambert e Gilles Philippe, con la collaborazione di Albert Dichy (Gallimard, pp. XLVIII-1600, euro 72,00). Il fatto che la più importante casa editrice francese abbia «istituzionalizzato» la figura di questo rigoroso iconoclasta, di questo assertore della «rivolta individuale», accogliendo i suoi scritti nella canonica collana dei classici, non è d’altronde nuovo, essendo già avvenuto nel 1952 quando la stessa Gallimard intraprese il progetto delle Œuvres complètes: qui apparvero nella «collection blanche» cinque volumi, inaugurati dal mastodontico saggio esegetico Saint Genet, comédien et martyr di Jean-Paul Sartre. A questi si aggiungerà nel 1991 L’Ennemi déclaré contenente una serie di testi dispersi e interviste.
In questa nuova Pléiade vengono accolti i cinque romanzi, composti fra il 1942 e il 1948, Notre-Dame-des-Fleurs, Miracle de la rose, Pompes funèbres, Querelle de Brest e Journal du voleur, accantonando Le captive amoureux – libro afferente all’adesione alla causa palestinese apparso postumo nel 1986 –, in quanto «appartiene a un altro genere». Si tratta di romanzi pervasi di espressioni scurrili e blasfeme, dai quali è bandita qualsivoglia aspirazione a una narrazione chiara e lineare, presentati nella lezione originale offerta da piccoli editori come Marc Barbezat, corredata in nota dalle varianti. Privi di una successione cronologica precisa, abbondano di elementi diacronici, di «giustapposizioni “simultaneiste”», come evidenziano nell’introduzione i due curatori, che aggiungono: «Amaro e radicale, Notre-Dame-des-Fleurs risente molto dell’espressionismo. Sublimando le convenzioni del romanzo di testimonianza e del romanzo di formazione, Miracle de la rose offre la meraviglia del romanzo poetico. C’è qualcosa di cubista e cinematografico nella scrittura e nella resa di Pompes funèbres e si resta sorpresi dalla dimensione profondamente esistenzialista di quel romanzo rivelatore che fu Querelle de Brest». D’altro canto, lo stesso autore aveva confidato a Sartre: «I miei libri non sono romanzi (…) perché nessuno dei miei personaggi prende decisioni in autonomia». I rapporti umani appaiono regolati dalle leggi che scandiscono la vita di delinquenti e detenuti, laddove inganno, protervia, tradimento si alternano al cameratismo, all’erotismo, all’ammirazione incondizionata nei confronti di figure, come quella del condannato a morte, che incarnano la dimensione mitica dell’eroe greco.
Un coacervo di stili ed espressioni multiformi, dunque, che sembra avvitarsi intorno a un nucleo di concetti sviscerati in maniera ossessiva, maniacale: il crimine, la violenza, il furto, la detenzione, la prostituzione, finanche la delazione. Tutto converge verso un male che, a causa del radicalismo in cui si manifesta, diventa astratto, metafisico. La stessa plasticità magmatica dei corpi avvinghiati in sequenze morfologicamente distorte – si pensi ai saggi su Giacometti e Rembrandt – si delinea in quell’universo claustrofobico che rinvia ad altre opere, a cominciare dalle epifanie connaturate al teatro antinaturalistico. Tuttavia il mondo chiuso che scaturisce dalla sua penna è improbabile. L’universo detentivo di Genet ha tratti edenici, palingenetici, come rilevato nel Journal du voleur: «Le feste del bagno penale: voglio parlarne. Già la presenza intorno a me di maschi feriti è una grande felicità concessami».
In tale contesto l’immagine della donna, a parte qualche fuggevole apparizione, è praticamente esclusa, comparendo solo di riflesso nelle fattezze di qualche travestito (si pensi a Divine in Notre-Dame-des-Fleurs), anticipando i temi di quell’identità speculare che affiora dalla terra come un kantharos gianiforme: «Vi parlerò di Divine mischiando il maschile al femminile secondo i miei umori, e se m’accadesse, nel racconto, di dover citare una donna, vedrò d’aggiustarmi, troverò pure un qualche ripiego, una qualche felice ispirazione, onde non nascano confusioni».
Pare che i valori vengano concepiti in maniera rovesciata, che «il mondo sotterraneo dell’abiezione», secondo una definizione dello stesso autore, non sia possibile senza l’avallo della redenzione, che la santità debba necessariamente collimare con la dissoluzione più intransigente e bieca. Questo microcosmo capovolto intende proporre un concetto di santità connaturato all’ambiguità e al tradimento. Precisa la Millot: «Al di là dell’estetica e dell’etica, è nel campo religioso, aperto dalle forme estreme e paradossali dell’esperienza mistica e della santità, che si compie il rovesciamento più completo del negativo nel positivo». Secondo Dominique Eddé l’apologia del crimine di Genet va interpretata alla luce di una pulsione al parricidio che rappresenta una delle motivazioni dei suoi romanzi, improntati a sondare il linguaggio aberrante delle divinità ctonie al fine di contrapporsi al perbenismo che lo privò di un autentico retaggio familiare, partendo dal caposaldo paterno, aborrito (e abortito) in quanto agognato. La scatologia sfuma nell’escatologia, come negli esiti radicali dell’ultimo Artaud. Le medesime figure paterne che si adoperarono per lui – da Sartre a Cocteau – furono con il tempo polemicamente misconosciute.
Osserva Bataille in La Littérature et le mal: «La dignità, o la santità di Jean Genet non ebbero mai un significato diverso: una via ne è l’abiezione. Questa santità è quella di un buffone imbellettato come una femmina, felice di essere oggetto di derisione». E ancora: «Genet vuole l’abiezione, anche se essa porta soltanto la sofferenza: la vuole per sé stessa, al di là dei vantaggi che vi trova, la vuole per una propensione vertiginosa all’abiezione, nella quale egli si perde, non meno totalmente del mistico che nell’estasi si perde in Dio». Questa coniunctio oppositorum si articola lungo tutto l’arco espressivo dell’opera multiforme dello scrittore francese, trovando la sua massima espressione nei romanzi e nel teatro. La singolare disposizione all’ossimoro è stata ben rilevata da Catherine Millot: «Egli si applicò alla dimostrazione poetica dell’identità degli opposti in un punto in cui dritto e rovescio si equivalgono e fece un impiego notevole dei paradossi che obbligano a sostenere, volta a volta, che una stessa proposizione è vera e falsa, che è falsa addirittura quando è vera, e vera soltanto se è falsa».
Lo stesso detenuto descritto da Genet sembra corrispondere, in realtà, a un modello omoerotico che, pur nella sua varietà di espressioni, rappresenta personaggi privi di alcuna verosimiglianza psicologica. Il detenuto incarna l’idea che il narratore ha del detenuto medesimo, figura tanto più interessante quanto più sbilanciata verso quelle valenze che si attagliano alla rappresentazione del male, espresso attraverso azioni basse e rivoltanti: si arriva a fare il panegirico della violenza carnale e della cospirazione con gli scherani nazisti. Leggendo le pagine di Genet in cui vengono descritti, con dovizia di particolari sordidi e spesso gratuiti, i vari amplessi dei personaggi che affollano i suoi libri, sembra di osservare gli studi brutali sugli accoppiamenti tra uomini (simili a ominidi, a primati) presenti in Francis Bacon.
Compare nel volume inoltre l’esigua produzione poetica, espressa attraverso un singolare connubio tra registri differenti, caratterizzato dal ricorso all’argot, oltre a un’interessante sequela di frammenti e a L’enfant criminel, testo che doveva originariamente essere trasmesso dalla Radiodiffusion française nel 1948. Non resta che ricordare ciò che Genet confessò in un’intervista: «Vorrei che il mondo non cambiasse, per permettermi di essere contro il mondo».