La storia del poliziotto lucano Giuseppe Di Bello andrebbe raccontata a lungo e ad ogni latitudine del nostro Paese. Nelle piazze, nelle scuole, nelle Università di un’Italia oramai troppo abituata ai social, ai proclami, e poco ai fatti.

Di Bello fu tra i primi a denunciare l’inquinamento dei terreni in Basilicata da parte delle multinazionali del petrolio, in particolare dell’Eni, anticipando l’azione della magistratura: dopo 8 anni e ben due sentenze della Cassazione che gli hanno dato ragione, è stato demansionato dal suo ruolo ed è il custode del museo di Potenza, alla guardia dei muri.

Senza divisa, aggiornamenti professionali, avanzamenti di carriera e a stipendio ridotto.

La storia di Di Bello è approdata anche in Senato grazie all’intervento del senatore di Sinistra italiana Giovanni Barozzino, che ha presentato diverse interrogazioni «rimaste senza risposta». Così in una conferenza stampa a Palazzo Madama, è lo stesso Di Bello a raccontare la vicenda che parte nel 2010, quando si accorge che la ghiaia dell’invaso del Pertusillo si tinge di un colore innaturale: da bianca diventava marrone. Ad allarmarlo è l’affiorare di decine di pesci morti.

L’invaso del Pertusillo, è bene ricordarlo, disseta la Puglia ed irriga i campi della Lucania. A quel punto decide di fare dei prelievi e farli analizzare privatamente a sue spese, perché non si fida dell’Arpab che da anni dichiara che è tutto sotto controllo.

I risultati confermano i suoi timori: nell’acqua c’è una quantità enorme di bario e metalli pesanti, tutti derivati da idrocarburi. Decide di affidare quei dati a Maurizio Bolognetti, segretario dei Radicali lucani, affinché venga dato il massimo risalto, e presenta un esposto in Procura. Lo stesso avverrà quando insieme alla biologa Albina Colella farà analizzare i sedimenti sotto al costone del pozzo naturale dove l’Eni inietta le acque di scarto delle estrazioni petrolifere: idrocarburi pari a 559 milligrammi per chilo, alluminio pari a 14500 milligrammi per chilo. E poi manganese, piombo, nichel, cadmio.

Da lì in poi inizierà il suo calvario. Denunciato da un assessore regionale del Pd per «procurato allarme», l’ipotesi di reato «poi si trasforma in divulgazione di segreto d’ufficio».

Viene sospeso dall’incarico e dallo stipendio (il prefetto lo revocherà per «disonore» anche dalla qualifica di agente di pubblica sicurezza), ed obbligato a consumare le ferie. Fatto oggetto di un procedimento disciplinare in cui gli viene contestata la lesione d’immagine. Arriva il processo e dopo essere stato condannato viene scagionato «dalla Cassazione che invece riconosce l’utilità della mia azione e della mia denuncia».

Il M5S gli propone una candidatura: accetta, supera le primarie («con il 70% delle preferenze»), ma Grillo lo stoppa perché essendo un condannato non si può presentare. Il giudice di legittimità annullerà anche quella condanna.

«Rivoglio il mio lavoro – dichiara – e la mia dignità». «Io sono un tenente, non un ex, e voglio che almeno questo mi venga riconosciuto». Un tenente che da 8 anni è custode di un museo. «Anche se io continuo ad essermi e a sentirmi un ufficiale di polizia». E per questo, conclude, «chiedo giustizia».