La storia del cinema abbonda di scene acquatiche in piscine di ogni forma e sorta, in riva a fiumi, nel mare aperto o nell’oceano: affascinanti riprese sotto la superficie fluida delineano corpi nuotanti, morti a galla, sirene, tritoni, forzieri del tesoro, nudità esibite, cadaveri dimenticati. Julio e Tenoch – uno ragazzetto del proletariato messicano, l’altro alto-borghese figlio di un politico di spicco – nel liquido amniotico di una struttura sportiva vuota durante il giorno di chiusura, diventano solo due vigorosi corpi nella loro semplicità, uguali e rivali, ambiziosi di percorrere l’intera lunghezza della vasca olimpionica senza respirare.

Vince Tenoch che ha già tutto: altezza, soldi, il membro più lungo di sette millimetri. La seconda volta che si sfidano sono successe tante cose… I ragazzi sono seduti sul bordo di una piscina a fagiolo di un motel, di proporzioni modeste, sporca di foglie galleggianti, furibondi: Tenoch ha avuto un rapporto sessuale con la bella Luisa, moglie di suo cugino, in viaggio con loro alla ricerca della spiaggia più bella di tutto il Messico, Boca del ciel. Julio ha visto tutto e, al ritorno dell’amico nella lurida stanza, hanno litigato tutta la notte confessandosi reciproci tradimenti con le rispettive fidanzatine.
Non resta che risolvere tutto con una nuova gara sotto l’acqua. Qui, viste le dimensioni ridotte, tocca fare andata e ritorno più volte, per vincere. La donna potrebbe essere il premio della vittoria, anche se lei non sarà mai d’accordo. La lotta è al tutto per tutto, chi la dura la vince, mors tua vita mea. Vince Julio, fortificato dalla brama di vendetta, da un desiderio di rivalsa, dalla rabbia. Parità ristabilita.

Correva l’anno 1991 e al festival del cinema di Venezia, in una delle ultime proiezioni, ho visto Y tu mamá también (regia di Alfonso Cuarón, protagonisti Diego Luna e Gael García Bernal, mai visti sullo schermo) per la prima volta. Avevo una voglia matta di vederlo: al Lido serpeggiano pareri favorevoli, la trama pareva divertente, si trattava di un’opera prima.
Non ho tirato un sospiro per tutta la durata del film, nemmeno quando, a pochi minuti dall’inizio, l’audio scompare completamente per lasciare spazio ad una voce fuori campo straniante che punteggia l’intera pellicola con intelligenza e sapienza di scrittura. La pellicola è costellata di scene sessuali esplicite, che non impediscono il circolare di un’aura di malinconia diffusa. Alla prima visione mi sono identificata sia con i pischelli che con la giovane donna, in un’altalena di desiderio di ludicità e consapevolezza della fine, marijuana e tequila, oblio e carnalità.

Oggi che ho cambiato casella della vita, da studentessa universitaria del dipartimento di spettacolo a madre regista che scrive di cinema, mi attira di più la figura femminile, Luisa: una moglie infelice, malata terminale (senza che si sappia fino all’ultima sequenza), che decide di vivere i suoi ultimi giorni educando al sesso (fatto bene) due adolescenti inquieti, lasciandosi andare ad una notte caliente a tre, che lascia un segno profondo nelle personalità di ognuno, come dev’essere in ogni storia che si rispetti: si entra in un modo e si esce in un altro, il cambiamento avviene tramite un misto di dolore e piacere perché crescere è faticoso, nuovo, stupefacente. Come un tuffo sott’acqua cercando di trattenere l’aria fino all’ultimo respiro.