Lo spettacolo che da due mesi tiene banco al teatro Franco Parenti, serve a conoscere un drammaturgo israeliano Hanoch Levin, molto noto in Europa ma mai rappresentato da noi, anche se è il più importante del suo paese, e serve anche ad ammirare Carlo Cecchi solo attore, come raramente capita di vedere se non al cinema, perché abituato da sempre a mettere in scena e adattare i testi in cui compare. Due scommesse ampiamente «vinte» da Il lavoro di vivere (oggi e domani le ultime due repliche). Il titolo «alla Pavese» potrebbe deviare l’aspettativa dello spettatore, ma è in realtà un viaggio senza inibizioni e senza attenuanti dentro il rapporto di coppia, e non solo.

La coppia c’è, protagonista senza limiti sul lettone al centro della scena circondato da tende alla veneziana (un letto che può evocare visivamente un’altra coppia, con Iaia Forte, in cui Cecchi affrontava Beckett e Joyce) sulla quale la regia, rispettosa quanto premurosa, di Andrée Ruth Shammah fa giocare quel fatale e decisivo game tra marito e moglie.
In realtà c’è un terzo incomodo, con la gustosa apparizione di Massimo Loreto, ma la scena è tutta per loro, Cecchi e la brava Fulvia Carotenuto, che instancabili conducono un gioco di verità scomode, di finte, di apparenti ripensamenti, piccoli cedimenti e grandi recriminazioni. È un mondo intero che nel tempo della commedia si imbarca, si inarca, si capovolge e vibra, annaspa e sembra prender fiato, fino al definitivo naufragio senza possibilità di salvezza. Eppure in quella domestica tempesta notturna, sul terreno comune eppur bellicoso di un letto e del suo circondario, scorrono veloci tutti i problemi e i drammi di una vita «normale». Un rapporto di coppia di cui sentiamo il fiato corto e il fiatone, l’imponderata misura privata quanto il coinvolgimento collettivo che riesce amaramente a suscitare.

Le cose su cui i due discutono con assoluto accanimento vanno dall’eros ai tic più individuali, dall’accettazione della banalità dell’altro (e ancor più della propria) all’illusione (che subito si rivela finta) di poter cambiare «in meglio» la propria esistenza. Usando materiali di commedia coniugale classica, ma con un percezione visionaria che ne fa metafora assoluta del pianeta e dei suoi elementi di attrito.
Del resto Levin (morto nel 1999 a poco più di cinquant’anni) è non a caso considerato il massimo scrittore di Israele per il teatro. Qualcuno, in quelle tempestose battute del Lavoro di vivere, intravede le pieghe del suo combattuto rapporto con la sua stessa patria. È un aspetto che non si può escludere, ma quel conflitto tra marito e moglie, senza traumi o motivi contingenti, ha già il valore assoluto di una tragedia classica: le parole affondano come lame nella quotidianità, trascorsa e presente, di ogni persona.
Cecchi è capace di trasfigurare quei lamenti rimbrottosi in ragionamenti lucidi e spietati sulla convivenza e l’autostima, sulla maledizione delle abitudini e sulla coscienza dell’infelicità. Lui che riesce a privare di retorica le verità più solenni e pericolose, col suo personaggio riesce a rendere sacrale quella coppia pruriginosa e normale, quasi in una liturgia di morte degna dei grandi autori scandinavi di fine ottocento. E Fulvia Carotenuto gli tiene testa, senza nascondere piccole furbizie e delusioni di una moglie altrettanto consapevole. Si sorride, ma con un sapore acido in gola. Andrée Ruth Shammah dà il giusto ritmo a quell’esercizio finale e fatale, sulla traduzione vivace e divertita che firma con Claudia della Seta.