Siamo governati da anni da un movimento nato sullo slogan della “democrazia diretta”, dell’uno vale uno. Oggi, dopo il boom di firme raccolte per il referendum sulla cannabis legale (550 mila, tutte digitali) e sull’eutanasia (oltre 900 mila, di cui 600 nelle piazze), i partiti vanno in fibrillazione e c’è chi teme – non del tutto a torto – che lo strumento di sottoscrizione tramite Spid possa delegittimare il lavoro parlamentare o addirittura diventare uno strumento di regressione civile e democratica del Paese. Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni che ha finanziato la campagna per la cannabis legale e ha promosso quella per l’eutanasia, da anni studia il diritto alla conoscenza e le nuove forme di “democrazia partecipativa”. Che è tutt’altro rispetto alla “democrazia diretta”.

Cappato, in Svizzera, che è la patria della partecipazione popolare, da anni si sono posti il problema della firma digitale e lo hanno in parte risolto. Ma di sicuro da sempre sono abituati a quesiti referendari di ogni tipo, anche i più retrivi. Come hanno fatto a non diventare un Paese incivile e governato solo dalla pancia più retrograda?

La democrazia della partecipazione non è in contrasto con quella rappresentativa. In Italia il dibattito è avvelenato dallo scontro partitico sull’esperienza del M5S. Casaleggio infatti partiva da un’esigenza reale – la digitalizzazione della società – ma ne ha fatto una macchina ad uso di partito, invece di mettere la tecnologia al servizio di tutti i cittadini, non solo di quelli del M5S, per potenziare l’esercizio dei diritti costituzionali. Al centro di tutto c’è il fattore della conoscenza. Gli svizzeri vanno due volte all’anno a votare anche su temi non di massima rilevanza, senza quorum, e ogni svizzero riceve a casa un opuscolo con le ragioni del sì e del no. Questo è il punto. Il referendum vero e proprio, superato eventualmente il vaglio della Corte costituzionale, avrà 30 giorni di campagna elettorale per formare un’opinione pubblica. Sempre che il corretto contraddittorio possa trovare spazio al posto dei messaggi unidirezionali dei leader. Ma come siamo arrivati a questa stagione referendaria? Nella mia convinzione che l’antiparlamentarismo sia l’anticamera di ogni fascismo, faccio notare che negli ultimi decenni il Parlamento è stato marginalizzato a causa del predominio dei partiti – quella che chiamavamo “partitocrazia” – e a causa delle decretazioni d’urgenza. Riducendolo all’impotenza. Prendiamo ad esempio il ddl Zan e l’eutanasia: il primo, nonostante potenziali maggioranze, è stato affossato nelle sabbie mobili parlamentari esattamente come è stato fatto per anni con l’eutanasia. Senza questi referendum, che sono invece una grande occasione di riconnessione tra il parlamento e le realtà sociali, anche la legalizzazione della cannabis e quella dell’eutanasia avrebbero fatto la stessa fine.

Non è in connessione con le realtà sociali neppure un governo di larghissime intese come quello Draghi?

La missione di questo governo è la lotta al Covid e la ripresa economica, quindi la gestione dei fondi europei. Emergenze che giustificano l’ampio sostegno e anche, comprensibilmente, l’attenzione alla competenza di chi deve gestire l’attuale delicata fase. Su questo mi trovo d’accordo. Ma l’errore enorme sarebbe pensare che questa è la politica, che questo esaurisca lo spettro di decisioni della politica. Libertà civili, diritti fondamentali e partecipazione democratica sono rimaste totalmente fuori. Il Parlamento su questi temi ha lasciato un vuoto, e i cittadini lo hanno riempito.

Il problema che si pone adesso però è lo strumento della firma digitale, delle sue potenzialità «nefaste».

L’Italia è stata condannata dalla Commissione dei diritti umani dell’Onu, su ricorso di Mario Staderini (ex segretario Radicali italiani, ndr), per le condizioni discriminatorie della raccolta delle firme. Per due discriminazioni: la prima è addirittura un controsenso costituzionale, perché se le firme devono essere autenticate al banchetto e il potere di autenticarle è in mano solo ai consiglieri comunali e agli assessori, vuol dire che a raccogliere le firme per i referendum possono essere solo i grandi partiti. Infatti adesso sono previsti anche gli avvocati, come autenticatori. Ma solo la firma digitale toglie la dipendenza dai partiti in favore dell’iniziativa dei comitati civici. La seconda discriminazione rilevata dall’Onu è quella nei confronti di chi non può accedere ai banchetti: grandi anziani, disabili gravi, residenti all’estero (6 milioni di persone che dovrebbero andare in consolato), i residenti dei piccoli comuni…

Ma se domani provassero con un referendum opposto al vostro, tipo «carcere per tutti i drogati», secondo lei non si riuscirebbero a raccogliere 500 mila firme in pochi giorni?

Innanzitutto siamo vincolati dai trattati internazionali e dalla Costituzione, quindi non tutto si può fare. Comunque credo che un quesito del genere non vincerebbe, alla prova del voto. Ma naturalmente il referendum – abrogativo, ricordiamolo – è lecito anche quando non ci piace., come è il voto in democrazia. In ogni caso, la qualità della risposta da parte del popolo è direttamente legata alla qualità dell’informazione e del dibattito.

E se si aumentasse il numero di firme da raccogliere?

Vede, le iniziative dei cittadini europei, unico strumento di partecipazione democratica dell’Ue, sono attivabili con un milione di firme in tutta Europa. Beh, in dieci anni, solo sei proposte di iniziativa popolare sono riuscite a superare il quorum. Noi ci abbiamo provato con Stop global Warming, che proponeva di spostare le tasse dal lavoro alle emissioni, e in due anni abbiamo raccolto 62 mila firme, sulla piattaforma della Commissione. Non è così facile come sembra.

L’ex hacker Audrey Tang, la ministra di Taiwan per la democrazia digitale, persegue l’idea di «un’infrastruttura compartecipativa di una società civile, in contrapposizione a una antisociale e tendenzialmente privatista», come possono essere i social network. La partecipazione digitale come attrattiva dei giovani alla politica?

Certo, questo è il punto centrale: siccome ormai la vita delle persone è consistentemente digitale, che ci piaccia o no, noi dobbiamo accettare la sfida e rendere le infrastrutture della democrazia digitale, aperte e partecipative, in modo che non siano dominate da interessi particolari, commerciali o agenti della manipolazione. Per esempio, la piattaforma che il ministro Colao vuole mettere in piedi è l’occasione di costruire una infrastruttura pubblica aperta anche agli enti locali e a tutte le istituzioni che volessero organizzare strumenti di partecipazione. Non solo referendum: bilanci partecipati, delibere di iniziativa popolare, luoghi di discussione come il forum messo in piedi con la Conferenza sul futuro dell’Europa, ecc.

Lei è tra i promotori del progetto «Politici per caso», per una legge istitutiva delle assemblee dei cittadini estratti a sorte. In quali Paesi è già realtà?

In Irlanda sono arrivati ai referendum sull’aborto e sul matrimonio egualitario a seguito delle assemblee dei cittadini. Macron ha affrontato, dopo la crisi dei gilet gialli, le risposte sui cambiamenti climatici convocando un’assemblea di cittadini estratti a sorte. Attenzione: anche in questo caso non parliamo di organi alternativi alla democrazia rappresentativa. La decisione ultima non spetta a loro. Quindi invece di guardare indietro spaventandosi della firma online bisognerebbe guardarla come un piccolissimo pezzo di una rivoluzione tecnologica al servizio della democrazia.

La politica si fa con i corpi, mettendo in gioco il proprio corpo, dice un certo orientamento di cui voi stessi, radicali dell’associazione Coscioni, siete ottimi esponenti. Questo futuro non rischia di rendere il corpo evanescente?

Già adesso la nostra vita è, come la chiama il filosofo Floridi, «on-life». C’è una connessione inestricabile tra l’elemento fisico e quello digitale. Bisogna lavorare perché queste due dimensioni siano alleate e si sostengano. Non è realistico metterle l’una contro l’altra. Un malato intrasportabile che ha internet come unica possibilità di comunicazione è una realtà al tempo stesso fisica e virtuale. Lo ripeto: indietro non si torna.