No, non è rassicurante la Grecia ripensata nel libro di Davide Susanetti Atene post-occidentale Spettri antichi per la democrazia contemporanea (Carocci, pp. 299,  euro 20,00). Niente serenità olimpica, né ordinate simmetrie, e nemmeno primitive grandezze. Le storie antiche non sono lette qui come un pacato repositorio di modelli utili ad abbellire il discorso sull’oggi, ma piuttosto come l’espressione di conflitti radicali e distruttivi, esito di una patologia complessa, indagata con lucidità fermissima. Una patologia che investe la comunità della polis a ogni suo livello, dal governo al rapporto con il divino, dalla famiglia all’educazione. Ognuno di questi ambiti è indagato a partire dalle narrazioni antiche: talora è data la parola ai testi, più spesso la voce dell’autore interviene per analizzare, con una prosa incalzante e inquieta che dipana le complesse sfaccettature dei problemi. La mediazione dell’interprete moderno nell’incontro con gli antichi è necessaria: le storie di Omero, dei tragici, dei comici, di Platone, sono raggiungibili ormai solo attraverso una evocazione. Giacché i loro protagonisti sono degli spettri, spettri inquietanti e portatori di messaggi. Fin dalle prime pagine è dichiarata la difficoltà di questo, e di qualsiasi discorso sull’antico. Fermo è il rifiuto di ogni attualizzazione accattivante: a essa, ma anche ai modelli di studio propri della tradizione, viene contrapposto uno sguardo più sofferto e critico, vòlto a formare una «officina di canoni provvisori che divengono oggetti di una continua negoziazione di frontiera». Una lettura che presuppone la consapevolezza della soggettività, giacché interroga i testi «a partire da domande che sono evidentemente nostre», domande davvero «post-occidentali», giacché scaturite dalla crisi generale di senso della nostra civiltà, che dai greci discende. Ma ai classici non spetta di fornire le risposte, sì di dare espressione radicale alle nostre inquietudini. Il libro si apre con l’incontro tra Odisseo e le anime dei morti: una scena che appare «il modello di un rapporto con il passato», quasi l’immagine del lavoro del filologo: così Nietzsche in una pagina degli Appunti per Noi filologi (3.51), da Susanetti valorizzata anche in polemica con la casta presente degli antichisti. Di qui si apre la via di una «politica della memoria e dell’eredità culturale» che cerchi ancora di dialogare con i fantasmi, attraverso una «dispendiosa» ma necessaria «pratica sacrificale»: solo così l’antichità si rivela «singolarmente contemporanea e anacronisticamente famigliare». Il libro affronta una serie di nodi tematici, estratti da pagine spesso famose della letteratura greca, rivelate nella loro forza dirompente. Basterà qualche esempio. Nella parola seducente e abilissima di Pericle, riscritta da Tucidide, si coglie il segno di una politica trasformata in «esperienza erotica collettiva», nella quale il controllo esercitato dal leader può facilmente scivolare nell’inganno della lusinga demagogica, anticamera della sottomissione tirannica: ciò mostra che la democrazia può finire nelle mani di malfattori senza scrupoli, o di individui paradossali come Alcibiade. Il discorso bello dell’eguaglianza, dell’equilibrio, della redistribuzione, il discorso insomma della «democrazia» ateniese, rivela la propria fragilità strutturale, cela una natura conflittuale: sotto la superficie di pacificazione, sotto l’unanimità del «noi», si celano la minaccia della violenza, e la debolezza degli strumenti di difesa. Il disvelamento di queste faglie è affidato soprattutto alla parola scenica: le vicende delle tragedie, inscenate dalla città e per la città, mostrano una comunità soccombere ai propri inguaribili mali a cicli ricorrenti. Là si trova espressa in forma consapevole e rassegnata l’idea, già tematizzata dalla cultura arcaica, che il dolore è presenza ricorrente, se non costante, dell’esistenza umana: ma la cultura dei greci ha anche sempre mantenuto vivo «il desiderio della vita buona e la tensione all’eccellenza». Incoerente, certo, è stata la convivenza di queste visioni: ulteriormente complicata dal senso della precarietà umana, e quindi dall’ansia di conoscere il destino, nel tentativo, sempre frustrato, di prevenirlo. Tuttavia le storie dei «grandi», narrate dai poeti e dagli storici, sembrano ineluttabilmente confermare che «nessun sapere, nessuna saggezza, nessuna esperienza possono proteggere l’uomo dalla sventura, ed ogni tentativo di usare la storia – propria o altrui – come istruttivo paradigma è solo un ulteriore passo verso l’inevitabile catastrofe». Non si salva nemmeno l’ambito della famiglia: nell’universo della tragedia, «che fa da specchio problematico alla città storica della sedicente democrazia e dell’uguaglianza», anche il rapporto tra padri e figli degenera in un «grumo problematico», nel quale né essere simili ai padri (non sempre saggi come ci si aspetterebbe), né percorrere rispetto a loro strade alternative (che talvolta appaiono vere pazzie) è garanzia di una scelta saggia e sicura. Lo scontro tra generazioni diviene una sfida che interpella la comunità dei cittadini, nella sua dialettica fra trasmissione dei valori tradizionali ed esperimenti di novità. Giacché se il passato può risultare inadeguato ad affrontare il presente, tra le «novità» c’è anche la rivoluzione, la guerra civile, il conflitto che lacera il corpo della città, che pure il discorso pubblico democratico celebra come unito negli intenti e pacificato dalle tensioni. E basterebbero le storie di Edipo o di Antigone a mostrare come la stirpe possa essere distruttiva anche per la città che l’ospita. Perfino la commedia, con le sue burle strampalate, riflette largamente su questi temi, dipingendo con tono scherzoso un mondo nel quale «vecchi e giovani non hanno più nessun bene da trasmettersi». Lontano da ogni consolatorio «umanesimo», il teatro sembra dunque trasmettere l’immagine di un mondo moribondo e mefitico. Di qui la domanda, che già alcuni antichi più consapevoli si posero: come uscirne? La risposta di alcuni ambienti filosofici, e di Platone, sembra indicare come rimedio, non perfetto, la soggezione alla legge. Concetto non poco problematico anch’esso, viste le contraddizioni del rapporto tra legge e giustizia dimostrate dalla stessa vicenda di Socrate. Se non qui, la soluzione allora sta altrove: nell’utopia si potrà disegnare uno Stato nel quale i governanti saranno «schiavi delle leggi», a salvezza dalla rovina altrimenti certa dell’intera comunità. Tanto più che la crisi non è solo nei valori, ma chiaramente anche nelle condizioni materiali dei cittadini: nella Repubblica platonica la dispari distribuzione della ricchezza e l’insaziabile accumulo sono già chiaramente individuati come «una minaccia costante alla stabilità e alla giusta concordia». E ancora una volta, la democrazia appare inetta a trovare soluzioni adeguate. Lo mostrano, con il consueto grottesco rovesciamento, le utopie della commedia di Aristofane: né i folli progetti comunistici, né i sogni di ricchezza generale, una volta messa sotto controllo la potenza del denaro, hanno successo. In questi tentativi «ogni volta parziali e insoddisfacenti» sta peraltro un contributo di analisi: è «la dinamica economica il punto di partenza di un rinnovamento», oppure è «eliminando la tensione alla ricchezza che si pongono le premesse di una nuova convivenza»? Nemmeno dagli intellettuali, e dal mondo che oggi si chiamerebbe della «formazione», sembra poter venire una risposta sufficiente. Basta ripensare alle Nuvole di Aristofane: la commedia mette in scena dei (presunti) «cattivi maestri», e celebra la voglia di liberarsene per le vie spicce. Si crede così di rimediare alla malattia: ma il vero problema sono soprattutto gli adulti, incapaci di decidere dell’educazione dei figli e di assolvere il proprio ruolo. Si comprende sempre meglio la spinta a cercare vie completamente diverse, anche dure, per tentare di risolvere il problema. In attesa della «città bella» di Platone, la città reale continua intanto a confrontarsi con i suoi problemi: «dalla tragedia alla commedia, si rinnova il panorama di un presente disforico». Che risalta ancor meglio nell’incontro provocatorio con l’alterità. La barbara Medea o l’inquietante Dioniso, figure seduttive, inducono la comunità a sfide autodistruttive, e si rivelano alla fine «liquidatori di un’élite oscena», a Tebe e a Corinto. È questa apocalisse, estrema e scioccante, l’unica catarsi? E intorno a quale «nuovo patto» la città potrà ricomporsi? La proposta platonica per sottrarre la città al regno ammorbante della morte è che qualcuno sia forzato a uscire dalla caverna dell’inconsapevolezza, compiendo il cammino verso la verità e la bellezza, e poi ritorni a impegnarsi nella fatica della politica. Anche contro il desiderio dei suoi precedenti compagni di prigionia, ancora servi del proprio asservimento, egli dovrà tentare di svolgere la propria missione. Questa sfida, positiva seppure largamente destinata alla sconfitta, è ciò che, secondo il ripensamento di Davide Susanetti, Atene può proporre oggi alla nostra democrazia, certo non meno malata di quella antica. Interpellato dalle storie degli antichi, rilette in questo denso e pensoso libro, il lettore viene indotto a riflettere: a chiedersi a quali scelte egli sia personalmente chiamato.