Se ne sia o no consapevoli, lo si voglia o no, quello che è convenzionalmente chiamato Occidente continua a essere pervaso da parole, credenze, argomentazioni elaborate nell’antico mondo greco e romano. Una di queste parole è naturalmente democrazia, che evoca subito il nome di Atene. Da tempo si è avvertita l’esigenza di connettere alla storia di questa antica città e delle sue istituzioni la ricostruzione dei modi in cui essa è stata termine di confronto essenziale per le riflessioni moderne e contemporanee volte a chiarire la nozione stessa di democrazia. Su questa linea di ricerca si innestano felicemente i saggi raccolti nel volume curato da Ugo Fantasia e Luca Iori per i «Quaderni della Rivista storica italiana», La democrazia ateniese in età moderna e contemporanea (Edizioni Scientifiche Italiane, pp. 241, euro 34,00), che esplorano momenti e aspetti significativi di questa vicenda.
Così il più importante studio cinquecentesco sulla repubblica degli Ateniesi, dovuto a Carlo Sigonio, è esaminato e messo in rilievo come autentica opera storiografica da Giovanni Salmeri, nel contesto delle diffuse comparazioni con il mito di Venezia modello di costituzione mista. Dal canto suo Kinch Hoekstra riconduce Hobbes alla sua matrice antidemocratica alla luce della sua esperienza di traduttore di Tucidide, contro recenti tentativi di ravvisare nel suo pensiero le radici di una teoria moderna della democrazia, fondata sul riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti e delle libertà naturali. Ma giustamente Hoekstra osserva che la libertà naturale era per Hobbes il grande male e la lezione negativa di Tucidide sulla democrazia ateniese continuava a essergli presente anche quando non lo avrebbe più nominato. A Maurizio Giangiulio è dovuta un’indagine sui modi in cui i riferimenti ad Atene alimentano il pensiero di età rivoluzionarie, come nel Seicento in Inghilterra e in Olanda e poi nella Francia del Settecento già prima della rivoluzione, per esempio in Condorcet o in figure meno note come Cornelius de Pauw, uno dei primi espliciti fautori di una democrazia di stampo ateniese, che valorizzava misure come il sorteggio a molte cariche e il compenso per la partecipazione alle assemblee. In tal modo è messo in dubbio il luogo comune secondo cui prima della Rivoluzione francese il discorso politico europeo fosse esclusivamente anti-democratico.
Attraverso un’analisi puntuale del modo in cui nell’Ottocento George Grote nella sua Storia della Grecia interpretava l’epitafio di Pericle nella storia di Tucidide, in particolare il passo II 37, 2, Luca Iori mette in rilievo un aspetto non molto considerato, ma decisivo anch’esso per le immagini moderne della democrazia ateniese. In tale passo, infatti, Grote vedeva emergere un concetto di tolleranza – termine senza corrispettivo in greco – nei rapporti privati e interpersonali come peculiare della democrazia ed elemento progressivo nello sviluppo della società e nel libero sviluppo dell’individualità. Era un punto ripreso da John Stuart Mill nelle sue recensioni all’opera di Grote e nel libro On Liberty (1859) per riproporre il nesso virtuoso tra democrazia e tolleranza anche per le democrazie moderne, al di là delle differenze istituzionali. Esso valeva come critica implicita alla contrapposizione, risalente a Benjamin Constant, tra la libertà degli antichi, che sacrificava l’individuo allo stato, e la libertà dei modemi.
Una storia di lunga durata, dal Cinquecento in poi, attraverso molte figure, è invece tracciata da Ugo Fantasia. Egli lumeggia un punto rilevante riguardante il mito di Aristide riformatore democratico, che stando a Plutarco aveva abolito le soglie di censo stabilite dalla costituzione di Solone per l’accesso alle cariche, segnando così una tappa decisiva in un processo di democratizzazione crescente sino a Pericle. Questa immagine di Aristide aprì discussioni anche sulle modalità di accesso alle cariche, per sorteggio o elezione o sorteggio entro un gruppo di eletti. Ma in ogni caso la figura di Aristide non poteva che incontrare l’ostilità degli avversari della democrazia, sia nell’antichità, sia ancora in John Adams, che gli imputava di aver ceduto il potere alla massa. Il mito di Aristide sarebbe però tramontato quando la riscoperta della Costituzione degli Ateniesi, attribuita ad Aristotele e pubblicata nel 1891, avrebbe mostrato l’inattendibilità della notizia di Plutarco.
La lettura di questo testo riaprì la discussione su quanto si era fatto per secoli. Essa ebbe ripercussioni anche in Russia, come mostra il saggio di Ettore Cinella, ricco di felici notizie e analisi, specie per tutti noi ignoranti della lingua russa. Esso ci fa conoscere una serie di personaggi impegnati in studi e discussioni sulla democrazia ateniese nella Russia prerivoluzionaria, in particolare Vladislav Petrovic Buzeskul. Pur in un ambiente fortemente influenzato dalla filologia e dalla storiografia tedesca, la storia di Grote costituiva anche qui un punto di riferimento decisivo per quanti aspiravano a un rinnovamento in direzione liberal-democratica della Russia. Così Buzeskul nella sua Storia della democrazia ateniese (1909) faceva propria l’immagine di una democrazia ‘mite’, favorevole al libero sviluppo dell’individualità. Egli accompagnava però alla storia del processo di costruzione della democrazia da Solone in poi, quella delle vicende economico-sociali, culminanti con Pericle. Ciò gli consentiva di sottolineare anche ‘i lati oscuri della democrazia ateniese’, come l’esclusione di schiavi, stranieri e donne.
A tempi più vicini a noi è invece dedicato il saggio di Dino Piovan, che esamina come le immagini della democrazia ateniese interagiscano in diversa maniera con alcune teorie della democrazia, da quella di Isaiah Berlin, che nel clima della guerra fredda del dopoguerra tendeva a interpretarla, sulla linea di Constant, come espressione della ‘libertà di’ anziché come ‘libertà dallo stato’, a John Dunn che ne ha dato un quadro positivo come democrazia sostanziale non rappresentativa, ma avente come principio base l’eguaglianza. E sull’uguaglianza ha insistito anche Jacques Rancière, intesa però non come obiettivo da raggiungere, bensì come presupposto da far valere attraverso il conflitto. Una concezione libertaria della democrazia ha trovato espressione soprattutto nello statunitense David Graeber, che contro l’identificazione della democrazia col sistema rappresentativo ha rivendicato la necessità di avviare «un processo di rifondazione della democrazia basato sull’organizzazione di comunità autonome», cioè forme di democrazia diretta. Sembrava riaffiorare nuovamente Atene, ma egli ne ha indicato un limite nell’adozione del voto a maggioranza, che comporta una perdita dell’autonomia personale. Soprattutto egli ha contestato l’idea che democrazia sia un concetto esclusivo della tradizione occidentale, come poco prima aveva fatto anche Amartya Sen, secondo il quale il government by discussion è prerogativa anche dell’India. E potrei aggiungere anche il libro dal taglio comparativo curato da Marcel Detienne, Qui veut prendre la parole? (2003), che se non vado errato ha avuto scarsa eco in Italia. Ma Piovan rileva giustamente che il criterio indicato da Sen è troppo minimale per caratterizzare la democrazia.
Questo volume mostra in maniera evidente che non esiste una tradizione occidentale monolitica della democrazia, tanto meno dei modi in cui si è guardato nei secoli alla forma da essa assunta in Atene. Di volta in volta l’accento è stato posto su singoli elementi, fatti propri o demonizzati, in una complessa vicenda di usi e abusi del passato. Nell’Epilogo al volume Paulo Butti de Lima fa notare giustamente come il vero radicamento della parola democrazia nel lessico politico si completi nei secoli delle rivoluzioni, dove un confronto continuo con la democrazia ateniese dà origine a una sorta di ibrido concettuale, nel quale il concetto antico di democrazia si innesta in quello moderno di rivoluzione, ignoto agli antichi. Credo si possa aggiungere al quadro anche un’altra rivoluzione, quella industriale: attraverso il suo prisma lo sguardo si poteva indirizzare anche sulla struttura economica e sociale ateniese. Qui a mio avviso il Settecento si rivela secolo cruciale, trovando con Adam Smith elementi essenziali per l’elaborazione di un’immagine primitivistica dell’economia antica come modo di produzione schiavistico, che liberava per tutti i cittadini, ricchi e poveri, il tempo che potevano impiegare in politica e nell’attività giudiziaria. Anche qui c’è forse un alone mitico, ma il nesso tra politica ed economia è uno dei nodi sui quali continuiamo ad arrovellarci e che fa auspicare un’ulteriore ripresa di queste esplorazioni sulle vicende tutt’altro che lineari della democrazia ateniese nei secoli sino a oggi.