Non sappiamo se la britannica Rhiannon Lucy Cosslett, autrice di un romanzo, The Tyranny of the Lost Things, e di un memoir felino, The Year of the Cat, e firma abituale del Guardian, abbia avuto occasione di conoscere il bravo scrittore messicano Emiliano Monge, noto in Italia per quattro libri, Morire di memoria (2010), Cielo arido (2012), Terra bruciata (2017) e Le omissioni (2020), tutti pubblicati dalla casa editrice La Nuova Frontiera. E quindi non sappiamo se in questo ipotetico incontro si siano trovati simpatici o se invece sia scattata a prima vista un’irrimediabile avversione.

Di certo, però, la divinità che governa le biblioteche di famiglia (quella stessa entità dispettosa capace di condannarci a passare ore cercando invano un volume che sappiamo di possedere ma che è misteriosamente scomparso) ha deciso di metterli l’uno contro l’altro, sia pure con un oceano di mezzo. Nel giro di pochi giorni, infatti, i due scrittori hanno affrontato lo stesso argomento (la loro biblioteca personale, appunto) da prospettive diametralmente opposte – Monge convinto che in una casa degna di questo nome non solo i libri non possano mancare, ma anzi debbano riempire ogni angolo; Cosslett paladina della necessità di disfarsi periodicamente dei propri volumi, destinati altrimenti a diventare feticci.

Invitato dalla casa editrice Godot a raccontare la propria esperienza per una raccolta di testimonianze, Bibliotecas, cui hanno preso parte fra gli altri Martin Kohan, Selva Almada e Dolores Reyes, Monge ha scritto una pubblica confessione (uscita in anteprima sul quotidiano argentino Pagina 12), in cui ammette di «comprare o ordinare libri usati, che si accumuleranno senza che io li legga e senza mai raggiungere i miei scaffali, con l’unico scopo di trovarvi qualche annotazione che spieghi, che mi faccia capire cosa ha portato qualcuno a leggerli». Comprensibile l’esasperazione della moglie e del figlio dello scrittore, costretti a convivere con questa massa di carta sempre più invadente. Ed è per compiacerli che Monge ha infine messo ordine, sistemando i volumi in ordine alfabetico e estromettendone parecchi, finiti in grandi sacchi nel garage, in vista dell’eliminazione definitiva. Ma il giorno dopo avere finito il lavoro, lo scrittore ha percepito in sé uno squilibrio per il quale c’era un solo rimedio: «Senza perdere tempo, sono andato in garage, ho portato dentro i sacchi, li ho svuotati uno per uno e ne ho disposto il contenuto ovunque ci fosse spazio: sulla scrivania, sul tavolo, su alcune poltrone e non pochi angoli».

Insomma, con buona pace dei suoi, Monge non intende rinunciare allo tsundoku, termine giapponese per l’acquisto di libri che non si leggeranno, ci spiega sul Guardian Cosslett che invece da un paio d’anni ha cominciato a dare via i suoi volumi, «a volte perfino mettendoli nel contenitore della carta da riciclare». Anche qui (e potrebbe essere altrimenti?) c’è di mezzo un marito, «cresciuto in un contesto buddista e abituato a un ambiente spoglio». Ma non è solo per amore che Cosslett rinuncia a tenere tanti libri.

Più ancora, è l’immagine del lettore (o della lettrice) tipo, che si condensa in un poster promozionale «con l’immagine di un gatto e la scritta: “Questo è quello che faccio, leggo libri, bevo tè, so cose”». Vale a dire – osserva la scrittrice, non certo accusabile di odio per i felini – «tutto ciò che di borioso e borghese c’è nel culto del possesso di libri». Non la lettura, chiaramente, e tantomeno i gatti, ma l’idea che «avere molti libri sia uno specchio della propria personalità», «credere che “si sanno cose” solo perché si possiedono tanti libri». Come sempre nella vita, c’è del vero, e anche no.