«Avevo intenzione di cominciare subito il giornale e prendere a raccontare su un tono mondano (di una vita non vissuta ma con impotente intenzione di viverla) le piccole cose ed i minimi incontri avvenutimi»: così scrive Antonio Delfini in una pagina dei suoi Diari, appena pubblicati da Einaudi a cura di Irene Babboni («Opere di Antonio Delfini», nota al testo di Claudia Bonsi, prefazione di Marco Belpoliti, pp. XL-414, e 50,00). In quelle parole è forse racchiusa la chiave del libro, restituito al lettore in una veste finora inedita per ampiezza e composizione; ma forse si può andare anche oltre: nell’«impotente intenzione di vivere» una vita narrabile risiede, se non proprio il senso dell’esistenza di Delfini, certo quello della sua opera e della sua figura d’autore.
Scrittore di squisiti ‘cominciamenti’ narrativi (Il ricordo della Basca è un classico del Novecento; ma, come spesso accade ai libri di racconti, è un classico sui generis, in via di riscoperta permanente), Delfini persiste emergendo dal fondo delle espressioni incompiute, dal registro delle promesse solenni e inadempiute. Per questo la raccolta dei suoi quaderni – centinaia di pagine eterogenee per genesi e funzione, ora sviluppate come una novella, ora compendiarie come un elenco o un programma – è il libro che meglio sembra corrispondergli. L’opera, cioè, somiglia al suo autore: ma non perché lo ritrae dal vero (in effetti, l’io dei Diari è un personaggio tipico più che una fedele trascrizione di un individuo empirico), né tantomeno perché rispetti un qualche patto autobiografico. Gli fa da specchio, invece, perché ne riflette l’immagine a figura intera, quella stessa che per frammenti si coglie negli altri libri di Delfini.
Non esiste nella letteratura italiana contemporanea, scrive Belpoliti nella bella introduzione al volume «un’opera simile che sia insieme la registrazione dei moti interiori di un’anima, il diario d’un apprendistato letterario, la cronistoria di un periodo (…). I Diari sono senza dubbio il libro più importante e più significativo di uno scrittore la cui opera complessiva sfugge a qualsiasi definizione e classificazione». In questo senso, rappresentano come la parte per il tutto, e insieme la sintesi di quei talenti – la vocazione alla scrittura di sé, ma screziata da un domestico surrealismo; la prosa che frana in versi più o meno sparsi – disseminati nell’arco dell’opera, dal Ricordo al Fanalino della Battimonda, alle Poesie della fine del mondo. Ma è una sintesi inconciliata, non dialettica, quella che i Diari offrono; lo dimostrano i temi e le forme, i toni e i giudizi.
Mentre scrive il diario, Delfini ne denuncia l’inutilità, annunciandosi come scrittore d’invenzione: «Quest’oggi ho abbandonato quel lavoro autobiografico e ho incominciato un discorso visionario-fantasioso. Ne ho abbastanza. Non voglio più scrivere il diario perché non serve» (aprile 1928). L’io diaristico oscilla, spesso nella medesima nota, tra la disforia e il suo rovescio: «Io non son niente – dico – io son disgraziato. Ma poi spero (o credo) di essere senz’altro il più opposto contrario!». Si capisce così che i Diari sono anche un laboratorio, e in alcune parti una sorta di archivio di abbozzi e avantesti.
«C’è chi insegna belle lettere», scrive in un album del 1940, e c’è «chi scrive belle lettere»; infine c’è chi «sogna belle lettere»: è a questa terza categoria che Delfini riconosce di appartenere. Ma già da tempo Delfini aveva rivolto a sé stesso domande a cui altri hanno dato risposta: «La letteratura, penso, non farà mai un progresso in Italia» scrive in un appunto della primavera-estate 1928 «finché ci si ostina, come dai più si fa, a guardare indietro nel modo che usa fare, e cioè non mettersi a scrivere poemi o altro, senza avere abbracciato tutta quanta la filosofia, poesia, prosa e filologia dai tempi antichi a oggi. È questo un grosso errore; come lo è l’essere troppo attaccato al presente e da quello solo prendere l’ispirazione». È il problema che, in poesia, si poneva e risolveva in quegli anni anche Montale. Ma per la prosa la conquista di un equilibrio era, ed è tuttora, più effimera. Non è ai contemporanei che Delfini si rivolge («Ho comprato Gli indifferenti di Moravia. L’ho incominciato a leggere e quella sua freddezza parlando di un mondo ch’è sorto con l’ultima modernità, mi ha reso rabbioso e impotente»), ma ai modelli del secolo precedente, specialmente Leopardi. È alle Operette e ancora di più allo Zibaldone che guarda: «Ho ancora letto le Operette morali, le quali mi sono piaciute moltissimo. Credo di averle capite veramente bene in tutto» (agosto 1927); «Quale angoscia mi abbia preso quest’oggi, quando leggendo Leopardi nello Zibaldone ho trovato che è veramente, senza alcuna speranza, inutile lo scrivere, quando non è elegantemente stilistico»; «Lo Zibaldone è per una persona incolta (…) il migliore manuale enciclopedico; che io ho da pochi giorni adottato, ma purtroppo, anche questa volta, leggendolo solamente per diletto» (primavera-estate 1928).
In questa luce, i Diari stessi possono apparire come una sorta di ‘zibaldone’ (e sotto quest’insegna sono raggruppate del resto le note personali e letterarie del 1928 e quelle giornalistiche degli anni quaranta). Occorre però distinguere, per forma e statuto oltre che per contenuti, l’opera leopardiana dall’imperfetto pendant di Delfini. Che cosa sono infatti questi Diari, e come nasce la loro raccolta? Una storica edizione era uscita già da Einaudi nel 1982, per le cure di Giovanna Delfini e Natalia Ginzburg, con una importante prefazione di Cesare Garboli; in quel volume erano raccolti scritti inediti di carattere autobiografico, sia quelli propriamente diaristici, sia altri di genere ibrido, tra la nota personale e il commento politico. Dal corpus, peraltro esteso in senso cronologico fin quasi alla morte dell’autore, venivano però esclusi gli appunti giudicati meno significativi e i testi poetici. La storia del testo e il processo che ha portato a questa nuova edizione è ben illustrato ora nella nota filologica di Claudia Bonsi, che ha portato a termine il lavoro avviato e impostato da Irene Babboni (1968-2017). Allieva di Garboli, editor e funzionaria di Einaudi, Babboni è stata una grande specialista di Delfini, di cui ha curato le Poesie della fine del mondo, del prima e del dopo (2013) nella ‘Bianca’; suoi contributi erano apparsi anche nella raccolta dei racconti delfiniani scelti da Gianni Celati (Autore ignoto presenta, Einaudi, 2008). I materiali da lei radunati in due faldoni presso la sua Casa editrice sono serviti all’allestimento della presente edizione, cui Babboni aveva cominciato a lavorare, insieme a Garboli, già negli anni novanta. L’impresa, concepita inizialmente per i «Meridiani» e in seguito provvisoriamente trasferita ad Aragno, nasceva con l’esigenza di colmare le lacune, correggere gli errori, evitare gli arbitri cui era soggetta l’edizione dell’82.
A molti anni di distanza dal suo inizio, l’avventura doppiamente postuma dei Diari è portata a compimento con perizia da Bonsi. Ne risulta un libro dalla fisionomia molto diversa: i materiali del periodo 1927-1944 sono ripartiti per quaderni e disposti in ordine cronologico, con la conseguente ricollocazione di molte parti del testo in una sequenza distinta da quella costruita nella precedente edizione; sono stati reintegrati vari brani espunti e addirittura interi quaderni (come quello intitolato Zibaldone), oltre – come si diceva – alle poesie e ai Frammenti poetici 1933-1936.
Meno ‘romanzo’ diaristico che ‘libro-archivio’, forse questa versione dei Diari non ci avvicina a Delfini più di quanto non facesse quella degli anni ottanta; ma lo restituisce più vivo tra gli accidenti e i frammenti della storia – la sua e quella del Novecento. In questo senso la nuova edizione, levigata dalla cura pluridecennale e perfetta nella forma, non vuole né può chiudere i conti con uno scrittore indeterminabile ma è l’adempimento di un sogno, di una fantasia dello stesso Delfini: «S’io divento un grand’uomo, un bel giorno vorrò sparire, tanto che il mondo mi crederà morto (…) È certo che salteran fuori critici e letterati ed editori per la pubblicazione de’ miei inediti. E io a godermela laggiù, a leggermi, a notare ciò che mi han scartato corretto esaltato compatito. Naturalmente ci vorrà uno che mi mandi una copia del libro». Che sia proprio una copia del volume di questi Diari?