Deleuze è stato spesso salutato come un «grande professore», seppure di un genere nuovo. Resta ancora da determinare ciò che effettivamente ha costituito la novità delle lezioni tenute dall’autore di Logica del senso. Potremmo ricordare che Deleuze a volte le concepiva come un concerto rock, addirittura come un’opera (una sorta di «Sprechgesang», diceva lui). Tali dichiarazioni non parrebbero tuttavia essere sufficienti a chiarire il modo in cui i concetti venissero costruiti a lezione, e tantomeno a misurare l’eventuale scarto esistente fra la produzione scritta e la pratica orale della filosofia in Deleuze. Esse possono anche nascondere le molteplici esigenze che caratterizzano, secondo lui, l’insegnamento di tale disciplina e il modo in cui queste abbiano potuto influire sulla concezione che egli aveva dell’attività filosofica.
Una di queste esigenze introduce in particolare quello che Deleuze chiama «Pop’philosophie» (Pop-filosofia). L’idea è la seguente: esistono molteplici modi di far proprio un concetto, esattamente come accade per suoni e immagini, in funzione «delle intensità che possono andar bene oppure no, che passano o non passano». In altre parole, la comprensione filosofica dei concetti non ha alcun privilegio sulla comprensione non-filosofica, «quella che opera con percetti e affetti»; al contrario, «sono necessarie entrambe», perché altrimenti la filosofia non vale un’ora di pena (si veda Conversazioni, Ombre Corte, 2011, p. 9, traduzione di Giampiero Comolli; Pourparler, Quodlibet, 2000, p. 186, traduzione di Stefano Verdicchio; L’Abécédaire, «P comme Professeur», DVD, Éd. Montparnasse, 2004). I nomi di Spinoza e Nietzsche vengono spesso citati per indicare un’esigenza di questa natura; è però importante segnalare ciò che spinge Deleuze a formularla: precisamente, l’esperienza dei corsi. «Fu allora – afferma riportando l’esempio di Vincennes e del suo pubblico variegato – che capii fino a che punto la filosofia è in un rapporto essenziale e positivo con la non-filosofia: essa si rivolge direttamente ai non-filosofi» (Pourparler, pp. 185-186). Ebbene, questo rapporto non è scontato; non dipende da tematiche più o meno mondane; deve essere conquistato e presuppone l’invenzione di nuovi modi di filosofare, con eventuali aperture ad altre modalità del pensiero. Deleuze lo indicava già all’inizio di Differenza e ripetizione: il filosofo deve cercare di rinnovare i propri mezzi di espressione, confrontandosi con ciò che si verifica in ambiti come il teatro o l’arte delle immagini.
L’uscita in CD di quasi sei ore di lezioni deleuziane sul cinema permette una prima constatazione: se si compara il loro contenuto con quello dei libri, emerge che l’evoluzione della parola favorisce sempre più la sperimentazione di questi nuovi mezzi. Lo testimonia il ricorrere di storie e scenette che intensificano l’argomentazione e che sono assenti nel dittico composto da L’immagine-movimento e L’immagine-tempo. Per esempio, quando studia la comparsa di un nuovo cinema del dopoguerra – il cinema del «veggente», caratterizzato dalla rottura del legame senso-motorio e da una tendenza al cogliere qualcosa di «troppo ingiusto» o di «troppo bello» –, Deleuze introduce una scenetta triviale: bisogna immaginarsi una turista, una «vecchia signora americana in viaggio in corriera» che, davanti alla bellezza di un paesaggio, «fa cadere la sua macchina fotografica», impotente ma paralizzata da un’emozione troppo forte che non riesce a scansare: è troppo bello… Segue la descrizione della sequenza della fabbrica in Europa ’51 di Rossellini dove il personaggio della borghese (Ingrid Bergman), diventata «veggente», viene a conoscenza dell’insopportabile condizione di lavoro degli operai («Mi sembrava di vedere dei condannati»)… Un approccio simile lo ritroviamo nello studio dell’immagine-affezione, attraverso l’esplorazione combinata di primo piano e volto. Quest’ultimo possiede due componenti: una che rimanda a un’«unità riflettente» (volto riflessivo) e un’altra che esprime una «serie intensiva» (volto intensivo). Esplicitando tale concetto, Deleuze inserisce nel suo sviluppo una sorta di melodramma che lo conduce verso un’altra scena, questa volta di coppia: un marito di ritorno a casa dopo il lavoro chiede alla moglie: «a cosa stai pensando?», e lei a sua volta gli chiede: «che cos’hai?». Due domande che corrispondono rispettivamente alle componenti del viso evocate all’inizio e che, in questa lezione, entrano in risonanza con i modi di «voltificazione» in Griffith o Eisenstein.
Deleuze si inserisce così in una stirpe di pensatori che inizia da Kierkegaard il quale introduceva «nella sua meditazione qualcosa che il lettore identifica formalmente con qualche difficoltà: si tratta di un esempio, di un frammento di diario intimo, oppure di un racconto, di un aneddoto, un melodramma eccetera?», prima di aggiungere «in ognuno di questi casi si tratta già di una specie di sceneggiatura, una vera e propria sinossi che appare per la prima volta in filosofia e in teologia» (L’immagine movimento, Ubulibri, 1984, n.16, p. 140, traduzione di Jean-Paul Manganaro). E così le «sinossi» si incontrano di più nei corsi, come se la pop-filosofia fosse suscettibile di trovarvi una sua migliore realizzazione. Quello che parallelamente cambia se si ascolta la versione orale rispetto al dittico sul cinema è il modo di presentare le idee. Se riprendiamo una distinzione stabilita nell’Abecedario, la «vocalizzazione» filosofica non è comparabile allo «stile» dei concetti allo scritto, per quanto entrambi siano orientati verso uno stato di disequilibrio, una tensione del linguaggio concettuale verso il suo limite – il percetto, l’affetto – là dove per l’appunto «qualcosa passa». Claude Jaeglé ha giustamente messo in evidenza la «drammaturgia» della voce di Deleuze: «pacata e toccante», a volte capita che «fino ad acquisire una sonorità da spettro zampillante»; accenti oratori «da spettro», o addirittura «da orco», che contrastano non poco con la «secchezza» della scrittura deleuziana individuata in passato da Clément Rosset (C. Jaeglé, Portrait oratoire de Gilles Deleuze aux yeux jaunes, PUF, 2005, p. 10-11). A questo proposito bisogna ascoltare le parti dedicate all’immagine-cristallo in Visconti, regista dei mondi in «decomposizione». Deleuze è particolarmente ispirato dalla scena del ballo nel Gattopardo, dove la giovane sposa e il vecchio principe «appartengono l’uno all’altra al di là delle età», «al di là dei corpi e delle anime»; ma è «troppo tardi»… Deleuze scandisce questo ritornello viscontiano con voce grave e sorda, quasi bisbigliando, come per meglio dare conto di un vissuto vivente di cui il «basso strascicato» traduce l’intensità.
L’analisi della vocalizzazione deleuziana rimarrebbe tuttavia secondaria se parallelamente non rivelasse la pedagogia del concetto messo in atto dai corsi. Conosciamo l’idea di Deleuze: filosofare significa creare concetti; le lezioni sul cinema gli conferiscono un’inestimabile portata pratica e permettono di apprezzare appieno il modo in cui si costruisce un «concetto di cinema». E cioè l’immagine-affezione: Deleuze parte da una formula generale – l’immagine-affezione è il primo piano e il primo piano è il volto – e giunge a una definizione costituita dalle due «componenti» già menzionate: la formula appartiene all’ordine del presentimento («non sappiamo dove ci porterà», dichiara Deleuze), mentre la definizione sottoscrive la consistenza dell’immagine-affezione come concetto. Nel corso di tale processo di fabbricazione relativamente tentennante –perché «i corsi si fanno su quello che si cerca e non su quello che si sa» (Pourparler, p. 184) –, le descrizioni filmiche accompagnano le parole del filosofo (Lulu di Pabst o L’assassino abita al 21 di Clouzot), in modo che il concetto, lungi dall’essere applicato dall’esterno alle immagini, non smette di differenziarsi diventando cinematografico. Ed è proprio questo divenire che i corsi rendono sensibile, molto più che i libri, dove i concetti di cinema sono esposti, più che generati. In tal senso lo spazio delle lezioni costituisce un vero «laboratorio di ricerche» nel quale Deleuze mette alla prova il costruttivismo di cui peraltro si fa forte, e che consiste nel seguire i movimenti di comparsa dei concetti in funzione dei problemi che dovrebbero, in teoria, risolvere. Solo così può essere compreso il modo in cui Deleuze riprende, modificandole, alcune nozioni della cinefilia, come quella di neorealismo (che egli definisce oltre la categoria del «reale»), e addirittura alcuni generi come il western (che, presentato a lezione come immanente all’immagine-percezione, finisce per ritrovarsi correlato all’immagine-azione all’interno della versione scritta). Ad ogni modo, le lezioni sul cinema rivelano molto chiaramente che Deleuze non si situa nell’ambito dell’interpretazione, la quale raramente sposta i problemi che ci poniamo (o che dovremmo porci), bensì in quello della sperimentazione, che impone configurazioni nuove per cose e azioni, all’avanguardia del nostro sapere. La pedagogia del concetto che ritma le lezioni in definitiva ci insegna questo: il cinema conduce la filosofia a creare configurazioni inedite; in cambio, la filosofia permette di vedere qualcosa dei film che hanno suscitato il nostro interesse o la nostra emozione. E così diventa possibile «uscire dalla filosofia attraverso la filosofia»: forse «la pop-filosofia o la pop-analisi che sognavamo» (si veda L’Abécédaire, «C comme Culture» e Pourparler, p. 16).


*Dork Zabunyan filosofo e professore di studi cinematografici a Lille 3 sarà in Italia ospiti a Firenze e Bologna dal 29 giugno al 2 luglio
Pubblichiamo qui un estratto dal suo :«Deleuze fa lezione: una pedagogia del concetto cinematografico»
Gilles Deleuze – Cinéma 6 CD, Paris, Gallimard, coll. «à voix haute », 2006.
(traduzione di Francesca Bononi)