Decisamente, un professore sui generis. Quando da giovane insegnava ad Amiens – racconta Gilles Deleuze nell’Abécedaire video di Claire Parnet – ai suoi allievi mostrava pure come si suona la sega musicale: «tutti lo trovavano naturale», sorride, ma «oggi nei licei non sarebbe più possibile». Sur la peinture (Les Éditions de Minuit, pp. 351, € 26,00) è la sbobinatura (eseguita con puntiglio «diplomatico» da David Lapoujade) delle lezioni tenute nella primavera del 1981 a Vincennes. Non può stupire che «suonino» in modo del tutto diverso – in misura della differente «prossemica» fra il corso universitario e la «monografia» sull’artista – rispetto a quello che ormai è un classico come il libro pubblicato subito dopo, Logica della sensazione, dedicato a Francis Bacon (1981; in italiano, nel ’95, in quella che fu una delle prime pubblicazioni di Quodlibet). Era congeniale a Deleuze la dimensione «musicale» del corso, fondato sulle ripetizioni e sui «ritornelli» («personaggio concettuale» chiave di Mille piani), e in comune lezioni e libro hanno un aspetto importante: la prima edizione di Logica della sensazione è divisa in due volumi, e il secondo allinea le riproduzioni dei quadri citati nel primo, fatto solo di parole; anche a Vincennes Deleuze aveva rinunciato quasi del tutto a mostrare immagini.

La liberazione della Figura è il grande tema della Logica della sensazione: «la pittura deve strappare la Figura al figurativo», e «nessuna arte è figurativa» (questo è per lui il senso dello slogan di Paul Klee, per cui non si deve «rendere il visibile, ma rendere visibile»). La Figura si può trovare tanto nell’arte rubricata come «astratta» che in quella di Turner, Cézanne, Van Gogh, Bacon o, per essere più chiari (ed è questo infatti, nelle lezioni, l’esempio più insistito), in quella di Michelangelo. Quello che fa la pittura, come voleva Klee, è rendere visibili le «forze» che attraversano i corpi: fremiti fermi, direbbe Beckett, che compongono un «diagramma» (il termine viene dalle celebri interviste concesse da Bacon a David Sylvester, da noi tradotte in due versioni piuttosto diverse nel ’91 e nel 2003). I contorni si fanno irregolari, i colori fluttuanti, la superficie dell’immagine diviene un campo di forze instabile e vibrante. In questo modo viene dipinta la «sensazione», come la chiama Cézanne: non «l’orrore» – diceva Bacon con la sua frase più citata – ma «il grido».

Gilles Deleuze nel 1987, foto Raymond Depardon

A nutrire Deleuze è soprattutto la storica distinzione di Aloïs Riegl fra regime ottico, tattile e aptico. In quest’ultimo il pittore «dipinge (…) in quanto egli tocca con i suoi occhi», rivelando il «corpo sotto l’organismo». È quello che Deleuze chiama Manierismo: si «dipingono le forze, e non le forme». Nessuna illustrazione, nessun aneddoto: «un quadro (…) non è un racconto». Per esempio il tema della Crocifissione, ossessivo in Bacon, viene sottratto alla tentazione di vedervi un background cattolico irlandese: la Croce non è che il supporto di una «carcassa di carne», formidabile «matrice di colori» come per Rembrandt o Soutine.

Il «diagramma», precisa Deleuze, è la «possibilità del fatto, non il fatto». Prima di dipingere il pittore non «si trova dinanzi a una superficie bianca»: ogni tela già formicola di «clichés sia psichici che fisici, percezioni già pronte, ricordi, fantasmi» che la pittura, prima di depositarsi sulla tela, deve «svuotare, sgomberare, ripulire». Per dirla con Mallarmé, è la Distruzione la vera Beatrice: e ogni creazione è una «distruzione creatrice». È quella che Deleuze chiama «catastrofe», «abisso ordinato» che rende la tela disponibile all’«apparizione improvvisa di un altro mondo», che è il «colore». Klee descrive questo «caos» come un «punto grigio» primigenio che può condurre tanto al fallimento, la resa definitiva al caos, quanto all’avvento del «sensibile». Questo «momento pre-pittorico», «cosmogenesi della pittura», è per Deleuze «il cominciamento del mondo». Nell’87 concluderà la conferenza Che cos’è l’atto di creazione? con le parole celebri, appunto di Klee, sul «popolo che manca». L’arte «non ha niente a che fare con la comunicazione»: ogni opera non è niente di più, ma anche niente di meno, che la creazione del proprio mondo.

Bacon supera tanto la «pittura astratta» geometrica, che riduce il «diagramma» a «codice» razionale, quanto l’«espressionismo astratto, o arte informale»: salvaguardando il contorno della Figura, la sua è «una terza via, né ottica come la pittura astratta, né manuale come l’Action Painting». Difficile sottrarsi all’idea che in questa tripartizione si rifletta la storia dello stesso Deleuze (come la racconta in un’altra intervista dell’88, a Raymond Bellour e François Ewald): dopo la storia della filosofia degli anni cinquanta e sessanta sviluppa un pensiero autonomo a partire da Differenza e ripetizione (1968), ma è solo coi primi anni ottanta – cioè dai libri sulla pittura, appunto, e poi sul cinema – che s’inaugura la dimensione figurale del suo pensiero: quella in cui – dice di Proust, il quale a sua volta rifuggiva tanto da «una letteratura figurativa» quanto da una «astratta», cioè dalla mera «filosofia» – si manifestano «verità scritte servendosi di figure».

Rispetto alle sintesi fulminanti di Logica della sensazione, a volte ci si può smarrire nei «ritornelli» delle lezioni, ripetizioni-variazioni in cui Deleuze discute anche, e con puntiglio, la bibliografia (suo punto di riferimento è la fenomenologia di Henri Maldiney ma la nozione di figurale, al di là di figurativo e astratto, deriva da Lyotard). Questo apparente brancolamento, però, va preso come l’equivalente del «punto grigio» di cui parlava Klee: la «catastrofe» che fa spazio all’avvento della Figura, all’«atto di creazione» rappresentato dalla Logica della sensazione.

Lo aveva detto anche di Proust, Deleuze, rileggendo il passo della Recherche nel quale chi dice io, sulla spiaggia di Balbec, indirizza lo sguardo verso una «specie di nube con dei piccoli punti»; poi quella «nebulosa» si organizza in «una specie di serie», e solo alla fine l’immagine si focalizza come Albertine. «Tutti gli apprendimenti» dei quali la Recherche racconta la storia (aveva scritto nel suo primo capolavoro, Marcel Proust e i segni, del ’64) rinviano a quelli «incoscienti dell’arte». «Ogni segnale», aggiungerà, «fa violenza»: «tanto più violenta», dirà Deleuze sui «Cahiers du cinéma» nell’86, «quanto più immobile». Il suo nome è «creazione» ed è, aggiungerà l’anno dopo, «l’unica cosa che resiste alla morte». Se continuiamo a essere attirati dalla violenza che esercita su di noi l’arte, è perché oscuramente sappiamo che del nostro corpo mortale solo quella vita, che ogni volta ci strappa, è destinata a restare.