Giacomo Leopardi con i marchigiani ha sempre avuto un rapporto difficile. Il borgo natio gli pareva irrimediabilmente selvaggio: dove lui vedeva l’infinito, gli altri vedevano una collina, buona per costruirci sopra un resort. A farlo ci sta pensando una ricca proprietaria terriera – tale Anna Maria Dalla Casapiccola –, dopo aver vinto ogni ricorso a colpi di avvocatoni dal nome altisonante come il suo.

Martedì il Consiglio di Stato ha scritto la parola fine in fondo a questa storia: la signora potrà costruire sull’ermo colle che adesso, un bel po’ in ritardo, il ministro della Cultura Franceschini definisce «patrimonio da preservare», manco fosse un panda. Dire che «noi l’avevamo detto» è antipatico oltreché inutile. Tanto vale ammettere che lo scontro diretto tra poesia e burocrazia è finito con la vittoria della seconda in goleada. Nel paese in cui Pompei casca a pezzi, in cui un abitante su due non legge niente (e non capisce il poco che legge), in cui la grande bellezza è una colata di cemento, non c’è molto spazio per l’eredità di un poeta che si è fatto la brutta fama di depresso, gobbo e sfigato, che spiava Silvia dalla finestra di fronte. Invece di disperarci per il trionfo delle «magnifiche sorti e progressive», invece di sgolarci con dichiarazioni di sdegno, potremmo fare una cosa molto più semplice. Potremmo andare in libreria e chiedere di un vecchio classico leopardiano, il Discorso sopra lo stato presente del costume degl’italiani. Costa poco, rende molto.