«Quando Garibaldo, quel giorno da chiodi, si beccò la pallottola in fronte (un forellino capocchioso, nemmeno un foruncolo), mentre stramazzava nel bacinìo della piazza, proprio davanti allo Splendor, volle avere l’ultima parola. Ma invece la lingua liberò un gorgoglio squaccheroso»: da quest’incipit nessuno dei lettori di Piazza d’Italia avrebbe forse potuto pronosticare che tipo di scrittore sarebbe poi stato Antonio Tabucchi. Siamo nel 1975, lo scrittore trentaduenne è all’esordio, porta addosso un clima linguistico dentro il quale sta cercando la propria voce; e sembra ancora cercarla quando, tre anni dopo, pubblica Il piccolo naviglio: «Ne sarebbero dovuti passare degli anni dall’inizio di questa storia, quando Leonida (o Leonido) stava attraversando a nuoto un torrente gelido, prima che Capitano Sesto si mettesse a percorrere a ritroso tutta la sua rotta. A quel tempo Leonida doveva essere il giovanotto tutto ossa e bassi del ritratto che Capitano Sesto ritrovò nel solaio della casa paterna». Stavolta il gioco sul tempo sembra avviarsi con le movenze del capolavoro di García Márquez, e l’autore sta ancora cercando il suo modo. Ma, come uno più uno fa due, il lettore deve pur concludere qualcosa da come i due romanzi si annunciano: Piazza d’Italia inizia con un «Epilogo», Il piccolo naviglio si apre con un capitolo intitolato «Dalla fine al principio». I tratti essenziali di ciò che i manuali letterari chiamano «poetica» ci sono tutti: Tabucchi sta fondando la sua particolare concezione del tempo e delle cose.

Pessoa e Borges interiorizzati
Due «Meridiani» ne raccolgono ora le Opere con l’inedito Lettere a Capitano Nemo (Mondadori, pp. CCXX-1607 e pp. 1673, € 140,00): il progetto editoriale è di Paolo Mauri, che firma un’ottima introduzione, anzi una vera e propria «guida alla lettura», La voce di Tabucchi, e una dettagliata cronologia (per la quale viene esplicitato il debito contratto con le carte conservate da Maria José de Lancastre Tabucchi); le preziose notizie sui testi si devono a Thea Rimini. Oltre tremila pagine che consentono di ripercorrere una vicenda letteraria tra le più rapide a espandersi e a essere riconosciuta tra fine Novecento e inizio del nuovo secolo.
Al terzo libro, quelli che sono modelli (Pessoa, come si sa, e Borges), appaiono talmente interiorizzati da essere sì avvertibili, ma fatti propri: Tabucchi comincia ad adottare la prima persona, e sceglie il racconto come forma che permette tagli più rapidi e struggenti, anche se spesso i suoi racconti si costituiranno in libri densi di richiami, dove un racconto fa da sponda all’altro, in una sorta di circolarità spaziale e temporale. «Il ricorso a Montale aiuta Tabucchi a decifrare l’arcano: esiste un “fuori orario”, ossia una zona del tempo che solo l’intuizione poetica o letteraria riesce a rischiarare e a far propria, magari anche solo per un attimo», osserva Mauri; e Tabucchi stesso, in Controtempo (raccolto da Anna Dolfi nel postumo Di tutto resta un poco), dirà: «Ammetto di avere scritto alcuni libri nei quali il Tempo entra come motore di fondo, o quale antagonista imprendibile, o quale nemico subdolo, o quale alleato o apparente alleato». Il gioco del rovescio (1981) è la voce di Tabucchi che scende in scena, anche se, al modo di altri eletti autori di racconti, parla con la propria voce per altri o è se stesso tramite la voce altrui: «Quando Maria do Carmo Meneses de Sequeira morì, io stavo guardando Las Meninas di Velázquez al museo del Prado. Era un mezzogiorno di luglio e io non sapevo che lei stava morendo». Da questo momento, fino a L’angelo nero (’91) e a Sogni di sogni (’92), passando per Donna di Porto Pim (’83), Notturno indiano (’84), Piccoli equivoci senza importanza (’85), Il filo dell’orizzonte (’86), I volatili del Beato Angelico (’87), Tabucchi si presenta con una sua ricetta misteriosa, un gioco magico e stregante: e si può anche aggiungere che alla lezione di quella che è la parte migliore della sua opera, con una certa maniera, molti si sono accostati, in vari tentativi di imitazione. Almeno da Sostiene Pereira (1994) il discorso sarà sempre più rivolto all’urgenza civile, politica, etica: mai assente nella sua opera, ma da questo momento in poi dominante e a lettere nette.
Rileggendo i libri e leggendo l’introduzione di Mauri che ne evidenzia i nuclei più significativi e ricorrenti, ci si accorge di come Tabucchi abbia toccato alcune tra le corde più risonanti nell’ultimo Novecento: per esempio la ricerca dell’altro – soprattutto nella frequentazione di Pessoa, scoperto negli anni sessanta acquistando a Parigi i versi pubblicati dal grande portoghese sotto il nome di Álvaro de Campos – attraverso la moltiplicazione letteraria del soggetto, in un incrocio tra miti della poesia e suggestioni psicoanalitiche e filosofiche: «mentre cerca se stesso, lo scrittore Tabucchi si scopre dunque sempre “altro” da sé e di questo altro ha la saudade». Un’altra corda è quella della presenza o centralità del libro: tanti libri o intere biblioteche ci sono nei romanzi e nei racconti di Tabucchi, e contribuiscono a uno scambio continuo tra realtà e finzione, tra allusività e verità. Ma soprattutto: «L’unica cosa che Garibaldo non riusciva a comprendere della vita, era la morte» si legge in Piazza d’Italia, e si annuncia un altro dei temi che coprirà l’intero arco della narrativa di Tabucchi, incombente su personaggi e sul sentimento delle cose, una vera e propria figura, che il senso dello scrivere attira a sé, facendosene parte costitutiva: lo scrivere – in Tabucchi un personaggio onnipresente, declinato in significati diversi – esorcizza la morte attirandola. Stessa funzione hanno altri due temi individuati nell’introduzione: la notte e il sogno.

Una presenza febbrile
Da ultimo, si è detto, Tabucchi fu soprattutto scrittore civile: i nuclei disseminati nella sua opera non smettevano di essere attivi, semplicemente lo scrittore trovava un’altra intonazione, resa tanto più inquieta proprio dalla presenza – perfino febbrile, ossessiva – di quei temi. La militanza civile di Tabucchi si è manifestata a rischio di molte semplificazioni, come spesso prevedono le posizioni molto nette. Un po’ anarchico, un po’ romanticamente comunista, Tabucchi non si è limitato all’intervento politico: aveva di fronte una necessità etica, come si può presumere per un letterato che diventa militante. Sostiene Pereira, romanzo-testimonianza di grande diffusione, è probabilmente il frutto più evidente maturato sull’impegno, a costo di uno sfrondamento dell’impianto narrativo, un pegno che probabilmente Tabucchi si è ben reso consapevole di dover pagare per quella virata: l’arrivo della politica nell’opera non come un tema fra gli altri, ma come tema sovrastante e dunque tale da lasciare gli altri come complemento o accessorio (per quanto riguarda un altro pagamento, preferì a un certo punto guardare l’Italia da lontano, come esiliandosi, da Parigi o Lisbona). Certo, quel romanzo, Sostiene Pereira, tiene in sé la morte e la scrittura, l’altro e il libro, ma a parti invertite rispetto a quanto era fin allora accaduto. E una dichiarazione del 1996 mostra ancora una volta come le cose siano destinate sempre a intrecciarsi, come i fili di un tappeto: «gli scrittori non sono poi così importanti nel mondo presente perché non parlano per i loro contemporanei. Non necessariamente la letteratura deve stare al centro del mondo, anzi spesso si trova nel rovescio o nei margini». Da qui la necessità di andare sul rovescio del rovescio, e così via.