Piuttosto spiazzante vedere John Landis uscire da una sala dove si proiettano film muti, ma ancora più strano, se si vuole, che il regista sia alle Giornate del Cinema Muto non solo come spettatore, ma in qualità di marito e accompagnatore della costumista Deborah Nadoolman. Storica della moda, oltre che creatrice dei costumi per i film diretti dal marito, ma anche per Indiana Jones, Nadoolman, che ha introdotto  Michelle Tolini Finamore, parla di «Personaggi, costumi e cinema muto» o meglio «Vestire Norma: la moda nel cinema delle origini». Quando pensiamo al cinema muto non possiamo non visualizzare dive con abiti da sera indossati a ogni ora del giorno, che fossero damascati, o di lucido raso, o accompagnati da veli, con scollature profonde, spalle nude, schiene scoperte ed esili bretelline a sostenere vestiti fruscianti, portati evidentemente senza reggiseno, oppure abiti vittoriani, larghi cappelli e corpini stretti per vitini da vespa.

La moda nel muto non è semplicemente l’abbigliamento del personaggio, che influenza cosa indossa la spettatrice che al cinema va scoprendo comportamenti e stili di vita. Il cinema muto ha bisogno di tutto ciò che è visivo per costruire il racconto: oggetti, ambienti, tessuti. Il costume del personaggio lo racconta prima ancora delle sue azioni: il colore, che assume nel bianco e nero sfumature diverse, ma che connota le qualità morali: la purezza e la bontà associate ai colori chiari e il nero degli abiti maschili o indossato dalle vamp. Norma Talmadge è uno degli esempi più sofisticati e famosi di questa associazione cinema muto e moda. Nei film della sezione delle Giornate a lei dedicata Norma cambia abito in continuazione: un vero lusso, dato che allora gli attori dovevano fornire, come in teatro, i loro costumi, cucendoseli e adattandoli oppure facendoli confezionare da stilisti o sartine, a seconda delle loro possibilità. Nei corti della Vitragraph Norma Talmadge, capelli e occhi scuri, è più bella e moderna delle vittoriane sorelle Gish o persino di Mary Pickford; è estremamente femminile, mai leziosa o bamboleggiante: donna anche quando era giovanissima. Cambia spesso di abito, agevolata da ruoli che le permettono di fare spesso la signora, quindi abiti con pizzi, tessuti preziosi, trasparenze, mantelli di taglio elegante, trucco leggero ma sapiente. Questo è infatti il suo personaggio: anche quando è una ballerina da avanspettacolo, in fondo è una brava ragazza e una mater dolorosa che rinuncia al figlio, per salvarlo dalla cattiva influenza del nonno, rigido capitalista antiquato. Può indossare una sorta di tutù fatto di tulle e lustrini, e ballare il can can, ma non è volgare, anzi, come dice il titolo del film, è una signora, The Lady (magnifico melodramma firmato dal maestro del genere, Frank Borzage).

Il contrasto è ancora più evidente in Yes or No, dove interpreta sia una donna povera, sposata con operaio (che diventa ricco inventando la lavatrice, vedendola sempre impegnata a lavare i panni) ma sa dire di no a un corteggiatore che la molesta (però le regala una camicetta bianca ricamata), sia una donna ricca, la quale, stanca di un marito troppo occupato nell’alta finanza al punto da non assecondarla nella sua vita mondana, dice di sì a un damerino che l’abbandona, portandola al suicidio. Gli abiti in questo caso non focalizzano soltanto la classe sociale, ma anche i caratteri delle due donne: tinte chiare e cotonina per la moglie dell’operaio e scure e tessuti preziosi ma inconsistenti per l’altra.

Norma insomma non indossa certo la prima cosa che trova nell’armadio: nel cinema muto il tipo di costume veniva riportato anche nella sceneggiatura e alcune star dichiaravano ai fan magazines di sentirsi pronte a entrare nel personaggio solo quando avevano deciso come vestirlo. Le riviste popolari di cinema pubblicavano foto delle star fuori e dentro i set, descrivendone gli abiti, il tessuto, il colore (anche se la foto e il film erano in bianco e nero) e offrendo persino cartamodelli per realizzarli. Questo rapporto schermo/pubblico è evidente dalla prima guerra mondiale in poi, quando la moda parigina e i tessuti pregiati non possono raggiungere l’America, ma essendosi l’industria tessile adattata alle necessità belliche, alle uniformi di tutte le taglie necessarie per gli eserciti di massa, così si adatta al nuovo ruolo internazionale che gli Stati Uniti giocano con l’entrata in guerra. New York diventa la nuova capitale della moda e trova in Norma Talmadge una grande sostenitrice. In un articolo significativamente intitolato «Wear America First» apparso su Photoplay nel giugno 1920 Norma scrive infatti: «L’America è la terra dei bei vestiti per tutti… Per noi non si tratta di vestire bene un ristretto gruppo di donne, ma di vestire bene tutte»