Tornare a Giacomo Debenedetti significa ogni volta e innanzitutto misurare il pieno e il vuoto lasciati da un maestro che seppe circostanziare la critica in uno spazio e in un punto di non ritorno – una corda tesa fino quasi a spezzarsi, un fascio di nervi sensibilissimo, un orecchio assoluto –, per quanto attiene alle risultanze analitiche e diagnostiche e nondimeno, in specie negli anni estremi del magistero, etiche, si direbbe regolate dalle vibrazioni allarmate dal diapason interiore di un sentimento tragico, laddove pare che l’opacità del futuro, la sua sostanziale illeggibilità, non può che trasformare quel discorrere in una sorta di avviso ai naviganti e ai posteri, affinché sappiano cogliere, gli uni e gli altri, i venti di tempesta e le difficoltà nel corso della loro navigazione. La questione intanto – come ragionò Alberto Moravia in morte del critico – era di fondo e di sfondo: in Debenedetti si percepiva «la qualità molto moderna e attuale della sua civiltà» ovvero di quell’essere civile in maniera sorgiva «con trepidazione, con inquietudine, con angoscia». Ecco, ma trattandosi per l’appunto di un tasto inesauribile, come capita con gli autori classici (scrittori, certo, e critici e saggisti di sguardo e di respiro europeo: Auerbach, Curtius, Contini, Longhi, Spitzer…), rimane infine e pur sempre (per lui e per i suoi lettori) la felicità delle rivelazioni che un testo produce e dello svelamento di un clima, di un’andatura epocale, uno svelamento esercitato mediante strumenti sottili, affilatissimi, quelli che il secolo gli metteva a servizio, dalla psicoanalisi alla fenomenologia, dalla sociologia alla fisica delle particelle.
Rileggere, ora tornato in libreria e accompagnato da un bellissimo saggio di Raffaele Manica, Il personaggio-uomo (il Saggiatore, «Silerchie», pp. 167, euro 17,00), significa chiamare in causa quel sentimento dell’angoscia di cui parlava Moravia. Occorre rammentare che i sette saggi contenuti nel volume, apparso postumo nel settembre del 1970, vennero tutti composti tra il 1958 e il 1966, l’anno precedente alla scomparsa del critico. In una nota editoriale si sottolineava, a proposito del titolo non d’autore, come esso fosse stato scelto perché considerato «strettamente attinente alla tematica e alla problematica del contesto», in modo peculiare (aggiungiamo noi) ai primi quattro («Commemorazione del personaggio-uomo», «Un punto d’intesa nel romanzo moderno?», «Il personaggio-uomo nell’arte moderna» e «Con gli occhi chiusi»), mentre i tre della seconda parte («Puccini e la “melodia stanca”», «Il tarlo in valuta oro», dedicato a Libri nuovi e usati di Emilio Cecchi, e «Vittoriani a Cracovia») fanno da peraltro utilissimo corollario. Ma ora, qui, conviene concentrarsi sulla prima parte o, anzi e meglio, sul saggio d’apertura (datato 1965) per innanzitutto segnalare come generalmente si commemori chi o ciò che non c’è più, nel caso in questione quel nostro alter-ego, fatto a immagine e somiglianza dell’uomo che, nel mentre ci viene incontro dalle pagine di un romanzo e a seguire anche dalla pellicola, consentiva l’esistenza, dice Debenedetti, della critica osmotica, «la quale penetrava il personaggio, e ne era penetrata, giungendo infine a comprenderlo e “a spiegarlo”», una critica di necessità poi divenuta «accerchiante» (e l’accerchiamento è un assedio che di preferenza si mette in atto dinanzi a un nemico).
Debenedetti si concentra sulle grandi esperienze che hanno segnato i primi tre decenni del Novecento. Al suo Proust e a Joyce, a Tozzi e a Pirandello (i Quaderni di Serafino Gubbio operatore, dove si «descrive abbastanza esplicitamente l’eziologia deformante che interessa prima di tutto i tratti facciali», ad essi conferendo un’«“espressione di sofferenza”»), i cui romanzi «sono un susseguirsi ininterrotto di esplosioni: esplodono gli oggetti, esplodono i personaggi» e quei frantumi continuano a parlare e addirittura conquistano un’«identità più intensa di quella che si è dissolta». Ma è a quest’altezza che il critico pare fermarsi e, come annota Contini nelle due pagine a Debenedetti dedicate nel suo Schedario di scrittori italiani moderni e contemporanei, non seguire oltre un certo limite tale dissoluzione. Certo, l’impasse è nel saggio rappresentata da Robbe-Grillet e dalle teorie fondative del Nouveau Roman. Ma pure le domande quasi finali che Debenedetti rivolge e si rivolge – vale a dire «perché l’arte, e in particolare la narrativa (…) offende poi il volto dell’uomo?» e perché si «oltraggia la creatura?» – illuminano questi saggi di una luce terribile, domande che in qualche modo non possono non travalicare la letteratura stessa. Il critico lo scrive quasi si trattasse di una parentesi: «Attraverso l’esperienza dei campi, lo psicologo Bettelheim ha identificato la figura delle “situazioni estreme”: esse presuppongono l’uomo divenuto numero di matricola, come dice con involontaria atrocità Robbe-Grillet». Non sta forse nel significato di questo inciso la bellezza e, ben di più, la grandezza testamentaria della Commemorazione?