Edmund de Waal, nato a Nottingham nel 1964, è uno di quei personaggi che si ritrovano a raccogliere nelle loro mani un lascito unico e prezioso e che scelgono di accettarlo appieno e di farlo diventare il loro destino.
Artista della porcellana, de Waal è uno dei discendenti degli Ephrussi, famiglia ebraica le cui fortune cominciarono nel Settecento a Odessa. Un suo prozio, Charles Ephrussi, erudito e collezionista, era tra i proprietari della «Gazette des Beaux-Arts» e amico di Proust, che a lui si ispirò per il personaggio di Swann.

Il primo fortunatissimo libro di de Waal è stato Un’eredità di avorio e ambra (2010), un mémoire tradotto e ammirato ovunque nel quale con prosa incantevole e ricchezza di particolari vividamente rappresentati viene raccontata la storia della sua famiglia di origine. Del palazzo degli Ephrussi, a Vienna, a seguito dell’Anschluss, si impadronirono i nazisti che distrussero e dispersero i beni dei proprietari, deportati nei campi di concentramento.

La strada bianca Storia di una passione (trad. di C. Prosperi, Bollati Boringhieri «Varianti», pp. 412, euro 20,00) è dedicato alla porcellana e alla sua storia. De Waal intraprende una serie di viaggi dai quali farà ritorno carico di appunti, libri, cocci, e un numero preciso di porcellane, emblematiche del valore rituale del viaggio stesso. Cinque «montagne bianche» da raggiungere e cinque «oggetti bianchi» da portare a casa: uno delle fabbriche dell’imperatore cinese Yongle, uno di Meissen (Sassonia), uno Cookworthy (Plymouth), uno di Wedgwood (Staffordshire), uno di Allach (Dachau), accanto ai cui marchi l’artista pone il contrassegno delle proprie creazioni (come si vede nella pagina web thewhiteroadbook.com, dove si può trovare anche un’espansione della bibliografia essenziale presente nel testo). Cinque punti del mondo intorno ai quali si rapprendono le ondate del racconto, in un quadro narrativo ed espositivo che viene ad articolarsi sulla rinuncia al rigore dell’ordine. Le partizioni e le liste vengono programmate ma hanno valore solo orientativo: la narrazione va e viene seguendo il flusso delle storie che convergono verso determinati punti geografici: Jingdezhen,Venezia, Dublino, Versailles, Dresda, Plymouth, Monte Ayoree, Etruria, Cornovaglia, Dachau , New York, Londra.

In questa storia ciascun particolare detiene un’aurea crucialità e il centro si ritrova a ogni voltata di pagina, come nella realizzazione della porcellana ogni singolo momento esercita un’influenza fatale sulla riuscita dell’opera: il più minuto gesto va eseguito secondo le modalità inesorabilmente prescritte e non sono ammessi colpi di testa né colpi di genio. Come la natura, l’arte esige un rigore sovrumano.
La verità è che per arrivare a produrre la porcellana, una ciotola o una teiera, concorrono tutti gli elementi presenti in natura. Oltre la ‘terra’ (caolino, feldspati e altri elementi secondo proporzioni fissate), l’aria, l’acqua e il fuoco, il principe supremo. Ci sono passi dedicati alla potenza misteriosa e decisiva del fuoco, che opera la trasmutazione definitiva portando i vari elementi a fusione, così da materializzare durezza, resistenza, lucentezza che il tempo non possa scalfire. E non è un caso che da questo ‘oro bianco’ promani una fascinazione che diventa una ossessione, la malattia della porcellana. Vi soggiacquero imperatori e re (come l’imperatore cinese Yongle e Augusto il Forte, re di Polonia e grande elettore), spietati con gli artisti che tenevano di fatto sotto sequestro. Ma ne furono affetti anche gli artigiani e gli artisti che perdevano il sonno e la salute davanti al calore insostenibile dei forni. Si capisce che quella della porcellana (dalle notizie fornite da Marco Polo o dal gesuita d’Entrecolles, fino alle industrie moderne) è una sfida dell’essere umano nei confronti degli elementi naturali. «Nessuno è qui per l’estetica», scrive de Waal. Fare porcellana è questione di audacia e metodo e non ci sono scorciatoie per nessuno. Che abbiano pace le anime e le pagine di Lorenzo Magalotti, Charles Lamb (che nei Saggi di Elia ammetteva candidamente: « I have an almost feminine partiality for old china») o Mario Praz (che di porcellane aveva disseminato la sua Casa della vita).

Il titolo fornisce indizi sul senso più generale dell’opera, che raccoglie una sterminata mole di conoscenze storiche quanto tecniche e che si rivela essere una forma di narrazione rarefatta e dilatata su un oggetto che sta dentro quello più evidente. Come le ciotole realizzate da de Waal, ed esposte nei musei di mezzo mondo, rappresentano spesso figure in serie, allineate in ordine di grandezza, o impilate una sull’altra, tutte uguali e tutte diverse, in quel bianco latte minimalista e inconfondibile che è diventato il suo contrassegno, questo libro rivela una struttura a figure concentriche, e diventa sempre più evidente che la strada bianca è sì quella che parte dalla Cina e arriva a Londra (ovvero proprio a de Waal), ma è anche l’immagine di un’idea che passa per la porcellana, che si cristallizza e si invetria nella porcellana, ma che riguarda in sostanza il principio della prova cui la materia viene sottoposta perché da essa possa sorgere una sostanza resa eccellente dal forno, dal raffreddamento, dalla ‘riduzione’, dalla decorazione, dalla disposizione e infine dall’uso. Tutto questo c’è in una tazza di porcellana, preziosa non solamente sotto il profilo estetico o nei suoi riscontri economici, ma come summa di ingegno e arte, pazienza e azzardo, sublimati da un biancore dal potere quasi ipnotico, millenni di perizia artigianale per produrre oggetti che in un attimo potrebbero ridursi in frantumi taglienti e inutili. E quel biancore, come l’ossessione di Achab, si modula in infinite scale cromatiche: bianco gesso, o osso, o latte, perfino ‘grasso di montone gelato’.

La porcellana è tutta un equilibrio precario tra elementi contrapposti. Quando l’operazione riesce, da tutto quel mescolare, dosare, chiudere, infuocare, gettare nell’acqua fredda, come Venere dalla spuma marina, emerge trionfante l’oggetto perfetto, che dura secoli mantenendo inalterati pigmenti, consistenza, brillantezza. Avvicinarsi a quell’oggetto e alla sua decorazione, che la pazienza del decoratore e del suo pennellino ha trasformato in un microcosmo in cui guardare il riflesso del macrocosmo, diventa allegoria dello stare nel mondo, essendo la porcellana oggetto duale per eccellenza: carne e ossa, caolino e petunsé, bianco e blu cobalto.

De Waal racconta – come ha scritto Remo Ceserani su questo giornale a proposito di Un’eredità di avorio e ambra – una biografia delle cose. Sono le cose poi a raccontare la storia delle persone. La tazzina di Meissen (1715) racconta il furore di re Augusto, come le porcellane Allach, prodotte dall’opera dei prigionieri di Dachau, raccontano la storia di Himmler che se ne era invaghito. Peraltro il fantasma della Shoah se ne sta muto in un canto di questa storia affascinante. Ed è con ogni probabilità questo il centro indicibile intorno al quale l’autore ha costruito la propria narrazione e forse anche la propria arte. Il libro racconta infatti la storia della porcellana come una storia di fallimenti, di sofferenze e di disperazione, ma anche di tenacia e di ricominciamenti felici.
Passione, furore, allucinazione: la vita di un oggetto è anche allegoria di coloro che si sono arrovellati, scottati, intossicati o uccisi per conquistarlo. L’immagine (e l’ossessione) del bianco con cui l’autore si congeda dal lettore rinvia al colore del lutto, ma anche al colore di nuovi inizi del fare, come pure alla vicinanza amorevole e trepida degli umani gli uni per gli altri.