Il sociologo statunitense Jeremy Rifkin, già una ventina d’anni fa scrisse un libro dal titolo profetico: « La fine del Lavoro». Rifkin annunciava un evento del quale oggi si può discutere normalmente come di una prospettiva che si colloca nel quadro della nostra realtà. Il possibile crepuscolo dell’attività lavorativa, così come l’abbiamo valutata fino ai penultimi decenni del secolo scorso, sta subendo l’incalzante effetto di una tecnologia sempre più sofisticata in grado di operare nelle dimensioni dell’infinitesimo. Lo scopo di questa tecnologia è produrre marchingegni sempre più complessi per farne vicari dell’uomo lavoratore.

Questo sviluppo non solo cambia la natura del lavoro e ne mette in pericolo l’esistenza, ma ne demolisce il senso.
Una delle forme di reazione straniata all’angoscia di un futuro che si annuncia come un orizzonte inedito, confuso e di impervia decifrazione, è rintracciabile nelle proposte politico-partitiche intorno al salario o reddito di cittadinanza.
I partiti, tendenzialmente autoreferenziali, in generale cercano elettori per gestire il potere e/o l’opposizione con uno straccio di legittimazione, fatta eccezione per i partitini che si dimenano per la sopravvivenza facendo conto su un elettorato residuale e ultraminoritario, la cui titolarità democratica è spesso messa in predicato dalla mancanza totale di progettualità sociale.

Il reddito di cittadinanza è una nuova voce delle agende di governo inaugurata con brillante intuizione dal Movimento Cinque Stelle e la primazia, nel nostro paese va loro riconosciuta, ma siccome viviamo nel Bel Paese, ogni leader rivendica il provvedimento come idea propria.
Anche Silvio Berlusconi, buon ultimo, genio assoluto del prendere per i fondelli, recordman della faccia come il deretano, ne reclama la paternità. Del resto lui è primo in tutto. Anche la Creazione: l’ha fatta l’Eterno, ma il progetto gliel’ha fatto lui, peccato che quel Pasticcione (absit iniuria verbis), abbia fatto un sacco di errori che Silvio non avrebbe fatto.
Il Cavaliere nega di aver preso l’idea da quei demagoghi buoni a nulla dei «grillini», lui si è ispirato a Milton Friedman, guru dei Chicago Boys, brillante monetarista e gangster dell’economia con la vocazione di privatizzare ogni molecola dell’esistente. Ma al di là di tutte le retoriche e le risibili competizioni indegne persino di un asilo infantile, l’irruzione nei programmi di governo del salario di cittadinanza o di dignità, annuncia il formarsi di vaste masse di disoccupati, inoccupati, parzialmente occupati, permanentemente in cerca di occupazione, eterni studenti, precari, un’enorme massa proletaria di riserva che di fatto non sarà neppure di riserva. Questa massa potrebbe coalizzarsi e diventare un’energia deflagrante e pericolosa per il sistema economico in cui viviamo che arricchisce i ricchi e impoverisce i poveri e soprattutto che ritiene di potere brevettare e fare profitto su qualsiasi risorsa del pianeta compresi i nostri corpi, fino alle sequenze dei Dna.
Il «potere bianco» – di cui parlava Pasolini nei suoi Scritti corsari -, preferisce fare dei non più lavoratori, una folla di consumatori pezzenti.

Come siamo entrati in questo incubo? Dando la stura al progetto di fine del lavoro? No, personalmente direi piuttosto, dando perversamente il via alla disgregazione reale e simbolica della figura sociale e culturale del lavoratore.
Il professor Claudio Magris, nel corso di una nostra recente conversazione telefonica, mi diceva di avere visitato la Polonia e di avere visto le ex acciaierie Lenin dove è stato collocato un museo che mostra la storia del movimento Sołidarnosc; lì ha potuto plasticamente osservare la fine della classe lavoratrice. Per concludere, ha soggiunto, l’unica classe portatrice di valori universali.

A questa catastrofe, nessuna formazione politica ha saputo opporsi con verità. Molti nella sinistra radicale hanno voluto provare a farlo, lo hanno dichiarato, ma fondamentalmente guardando indietro e non avanti. Nel frattempo sotto i nostri occhi impotenti si consuma una forma di lento eccidio.
Il caso di alcuni lavoratori della Fiat di Pomigliano d’Arco è paradigmatico, l‘antecedente dovrebbe essere noto ai lettori de Il Manifesto.
Alcuni lavoratori di quell’azienda, inscenarono un’azione politico-teatrale per protestare contro le condizioni di lavoro e licenziamento di alcuni loro compagni e compagne che si erano tragicamente suicidati. L’happening consisteva nella rappresentazione, in forma di effigie-manichino, dell’Ad Marchionne che si suicidava travolto dal complesso di colpa. Per questo atto di teatro politico, quei lavoratori furono licenziati per essere poi, in seguito grazie ad un’azione legale sostenuta da personalità della cultura e della società civile, riassunti. Oggi essi ricevono regolarmente lo stipendio ma non sono ammessi a lavorare. Il messaggio del padrone? Lo stipendio mi tocca dartelo, ma come lavoratore con diritti e dignità non ti voglio, non devi esistere. I lavoratori andranno in tribunale, ma per quanto ancora verrà loro concesso il diritto alla giustizia?