Negli anni di Tangentopoli, per Gianni De Michelis, il massimo dell’umiliazione era non sentirsi a casa e al sicuro nella sua città. Nelle calli di Venezia, quando vi faceva ritorno, gli capitava di essere insultato, perfino minacciato di essere spinto giù in un canale, se s’azzardava ancora a farsi vedere in giro.

Quando poi chiese di poter tornare a insegnare a Ca’ Foscari, avendo abbandonato la politica dopo le vicende giudiziarie, non gli fu consentito. Nel giorno della morte, molti ricordano – nei notiziari online soprattutto – il De Michelis di quegli anni disgraziati, con annessa zazzera lunga e l’inevitabile aggiunta delle storie piccanti del «doge» frivolo e ballerino.

VENEZIA, NO. La sua città gli tributa l’omaggio che si deve a un proprio cittadino illustre: «Grande onore a lui, una figura importante per Venezia», dichiara il sindaco Luigi Brugnaro. Si dovrebbe contestualizzare la sua figura, per capire come l’onore che gli riserva la città dove nacque settantotto anni fa, da una famiglia protestante e rigorosa, è solo in apparente contrasto con la vita disinibita e con il disinvolto rapporto con i soldi del De Michelis rampante.

Contestualizzare non significa né relativizzare né essere indulgenti. D’altra parte, in diverse interviste fu lo stesso De Michelis a essere severo con se stesso, ricordando quegli anni. Erano gli anni Ottanta, inizio anni Novanta, e il massimo del successo De Michelis lo conseguì proprio a cavallo tra i due decenni, come ministro degli esteri, dopo essere stato più volte ministro di dicasteri meno importanti. Erano gli anni in cui cambiava il mondo. Crollava un sistema che sembrava destinato a durare per sempre, e si sbriciolava invece rapidamente, come una costruzione effimera.

L’Italia viveva doppiamente quel passaggio, come paese chiave dell’Europa e della Nato e come paese nel quale il sistema politico era rimasto ibernato per oltre un quarantennio, specchio fedele della guerra fredda, e d’improvviso si scioglieva.

De Michelis, come capo della diplomazia, ebbe un ruolo importante in quei frangenti, e lo ebbe anche come membro del gruppo dirigente del Psi. Partito che si era candidato, con il suo leader, Bettino Craxi, a rimodellare il sistema politico italiano, con il chiaro intento di diventare la forza più importante, espressione di una sinistra riformista moderata, nello scacchiere politico, mettendo ai margini il Partito comunista e, in prospettiva, occupandone lo spazio.

C’ERA, NEI SOCIALISTI, in quegli anni, la sicumera di chi credeva di avere già vinto la partita con la storia. Il comportamento di De Michelis era anche lo specchio di quella sensazione.

Così come per i socialisti della Milano da bere o dei capicorrente meridionali che rivaleggiavano con i ras democristiani. La storia andò in tutt’altra direzione, come si sa.

E De Michelis, relativamente ancora giovane, come il grosso del gruppo dirigente socialista, fu espulso malamente dalla politica. Finendo con il fare da consulente per politici di seconda e terza fila che erano stati suoi seguaci, come Tremonti e Brunetta.

Peccato. Il gruppo dirigente socialista e molti intellettuali del suo giro erano complessivamente di alto livello, non solo paragonati ai politici di oggi, ma anche a quelli dei loro tempi.

AVIDO LETTORE DI LIBRI, amico di intellettuali, artisti e musicisti, sostenitore – va ricordato – del manifesto, De Michelis – quand’era ministro del lavoro – coniò l’espressione «giacimenti culturali».

Erano progetti, in collaborazione con il ministero dei beni culturali e con 37 aziende di informatica per catalogare, raccogliere, descrivere (e dunque, si disse allora, valorizzare economicamente) il patrimonio archeologico, archivistico, storico e artistico italiano.

Fu una buona idea? In un’intervista Salvatore Settis disse qualche anno dopo che per il patrimonio italiano – «da prezioso in sé e bisognoso di molte cure e molti soldi si passò all’idea che quei beni servissero a far soldi». Era tuttavia un’idea, controversa fin che si vuole, ma tesa a creare opportunità di lavoro. Così, nel campo della cooperazione allo sviluppo, che con De Michelis diventa parte importante della nostra politica estera, sia in termini di risorse dedicate sia in termini di elaborazione strategica. Qui la corruzione ebbe la meglio sulle buone idee.

Sarà anche per questo, certo, sta di fatto che dopo De Michelis non si è elaborato nulla d’interessante in materia di cooperazione.

Ma l’impianto di allora è di grande attualità oggi, anche nel collegamento con una visione del nostro paese rispetto alla sua collocazione geografica.

QUESTO DATO era evidente in De Michelis, che allora era convinto di un ruolo possibile dell’Italia per scongiurare lo smembramento della Jugoslavia e, più in generale, per sostenere Gorbaciov nel suo tentativo di uscire dal comunismo senza precipitare nel caos e poi finire preda dell’autoritarismo. Oggi problemi equivalenti e simili trovano di fronte un Moavero Milanesi.

Da ministro degli esteri De Michelis continuò a occuparsi del partito e della politica veneziana. Errore che gli fu fatale, come egli stesso riconobbe in un’intervista con Enzo Biagi nel 1992. In effetti tanto era capace di pensare in grande, da ministro, tanto era ridicolmente inadeguato nelle piccole manovre di potere locale. Nelle quali finì per perdere tutto.