Almeno dagli anni Venti del Novecento la «questione meridionale» è il problema centrale della questione nazionale italiana. Mai davvero risolta, drammatica eredità del processo unitario, questa questione ha trovato nell’opera di Ernesto De Martino uno sviluppo originale, troppo presto dimenticato, che avrebbe potuto suggerire (non solo alla cultura storica ma a una politica di sinistra) un modello di riferimento teorico e pratico. Rileggere oggi gli scritti di De Martino, in nuove e più accurate edizioni, implica soprattutto questo: fare i conti con un pensiero molto attuale, capace di indicare, anche a lettori non specialisti, strade che non sono state battute e che possono rivelarsi tuttora feconde.

Dopo la ripubblicazione, completamente ristrutturata, di La fine del mondo nel 2019, l’editore Einaudi completa ora, con Sud e magia (uscito per la prima volta nel 1959 e ora nella «Piccola Biblioteca Einaudi – Nuova serie», pp. 224, € 22,00), la nuova edizione della così detta «trilogia meridionalista», iniziata nel 1958 da Ernesto De Martino con Morte e pianto rituale e conclusa nel 1961 con La terra del rimorso. A Marcello Massenzio (curatore anche degli altri due volumi della «trilogia») e a Fabio Dei si deve un lavoro esemplare, non solo per la resa dei testi, ma per prefazioni di notevole spessore e originalità e per la scelta di appendici (come le suggestive Note di viaggio del 1953) che aiutano a penetrare nel difficile dispositivo di questi libri.

Si tratta, d’altronde, di opere straordinarie. Risultato di «spedizioni etnologiche» compiute, tra il 1952 e il 1959, in Lucania e in Puglia, i testi mostrano la capacità unica di intrecciare, in un quadro interpretativo estremamente significante, diversi generi di fonti – dal relitto folclorico (frutto di lunghe ricerche interdisciplinari sul campo) al documento letterario antico e moderno, componendoli in una vigorosa struttura teorica, centrata sulla dialettica tra crisi della presenza e tecniche mitico-rituali di riscatto. Proprio perciò – ha osservato Massenzio – parlare di «trilogia meridionalista» può apparire limitativo, perché ci troviamo invece di fronte a una «storia culturale» che, oltre il Mezzogiorno, riguarda il destino dell’Occidente e della nostra modernità.

Se in Morte e pianto rituale De Martino indagava la vicenda del lamento funebre, fermando il compromesso tra la radice pagana del cordoglio e il tentativo cristiano di ridurre la morte ad apparenza; e se nella Terra del rimorso avrebbe poi seguito il tarantismo fino alla sua sconfitta e degradazione a patologia medica,  qui, in Sud e magia, affronta la lotta tra razionalità e magia, la «polemica antimagica che attraversa tutto il corso della civiltà occidentale nel suo complesso», fino a indicare, nel sorgere della «jettatura», il limite di sviluppo dell’illuminismo e della borghesia meridionali.

Al fondo delle diverse declinazioni della ricerca resta il grande tema – storico e antropologico, enucleato nel 1948 nel Mondo magico e in seguito allargato a una dimensione sempre più universale – della labilità della presenza (il «negativo più grave», si legge qui) e dei meccanismi di destorificazione e di reintegrazione dell’energia operativa.

Il progetto di «nuovo umanesimo», di un «umanesimo etnografico», trova, in queste indagini sul campo e nella conseguente elaborazione teorica, un terreno di verifica e di sviluppo, stringendosi sempre più nella riflessione sulla crisi del mondo presente: su quella apocalisse senza eschaton della società borghese di cui De Martino parlerà negli ultimi scritti. Tutta la sua ricerca etnologica approda al problema della relazione tra identità culturali diverse, tra il sé della civiltà occidentale e il suo altro, problema che De Martino  ha delineato oltre il rischio di un vuoto relativismo culturale, di un astratto pareggiamento; e, d’altra parte, di un «etnocentrismo dogmatico», chiuso e unilaterale.

Il suo era, piuttosto, un «radicale esame di coscienza», sostenuto dalla capacità di mettere in discussione il proprio modello culturale attraverso il confronto con altre civiltà e con i residui folclorici di altre esperienze, proiettate in «quel fondo universalmente umano», che è un «compito» da conquistare e non un «presupposto».

Da qui, la «prospettiva»| di una nuova questione meridionale, intesa come «storia religiosa del Sud», di cui la «trilogia», e in particolare Sud e magia, offre un corposo esempio. C’era un debito nei confronti di Gramsci, ma anche una novità sostanziale, perché De Martino concepiva diversamente la sfera religiosa: né come concezione del mondo, né come filosofia inferiore, piuttosto una «ierogenesi come tecnica», ovvero un dispositivo mitico-rituale capace di replicare alle situazioni critiche dell’esistenza. A Gramsci rivolgeva la stessa critica che aveva rivolto al giovane Marx, il quale aveva considerato la religione come alienazione, invece di osservarla – si legge in La fine del mondo – come «una mediazione necessaria dell’umano».

Del pensiero di Gramsci resta vivo – tra le pagine di De Martino –  un punto essenziale (tante volte semplificato o equivocato), la necessità di non isolare o mitizzare la cultura subalterna, di considerarla come processo storico, nel più generale nesso egemonico, in una circolazione tra alto e basso, tra élite e cultura popolare. Un aspetto che, in La terra del rimorso, si sarebbe riversato nella critica alle «due storie» di Giuseppe Pitré e che, nelle Note di viaggio (ora pubblicate in appendice a Sud e magia), risalta nella critica del «mito romantico» della letteratura popolare, «preteso tesoro lirico di contadini e bifolchi». Solo così, scrive De Martino nella Prefazione, il materiale folclorico-religioso acquista un significato, oltre «l’industre fatica dei raccoglitori di tradizioni popolari» e «l’impulso romantico di qualche nostalgico di paradisi perduti».

Forse più disomogeneo di altre opere (per esempio di Morte e pianto rituale), Sud e magia esibisce una esplorazione etnografica delle sopravvivenze lucane della «fascinazione», insieme allo studio del rapporto tra residui magici e forma egemonica del cattolicesimo, e a una parte sulla «ideologia di compromesso» dell’illuminismo napoletano, centrata sulla figura della jettatura. Ma lo sfondo della ricerca rimane quella «polemica antimagica» che scandisce lo sviluppo della ragione moderna, segnata da compromessi e punti di arresto, sostanzialmente incompiuta, e fondata sulle risposte alla crisi di un regime protetto mitico-rituale. È un esempio di quella «storia religiosa del Sud» chiamata a rinnovare la questione meridionale, ma anche di una vicenda più grande, che riguarda l’Europa e non solo.

In un passaggio cruciale, De Martino scrive che la «magia di tipo “lucano”» si ritrova in numerose aree folcloriche, per esempio, presso gli Aranda centro-australiani, alludendo alla analogia tra diversi popoli primitivi, sparsi in lontane aree geografiche. Ma l’uso controllato del metodo comparativo non lo porterà mai a risolvere l’analogia in strutture elementari (al modo dell’antropologia strutturale). Ciò che fonda e giustifica l’analogia è l’esperienza comune della crisi radicale, dell’«essere-agito-da», non le soluzioni che a quelle crisi vengono trovate, e la cui comprensione può avvenire soltanto «entro una civiltà singola, una società particolare, un’epoca definita». Non a caso, in un suo passaggio tra i più impegnativi, De Martino ribadì la propria fedeltà allo storicismo, a quello storicismo che, in tutta la sua opera, aveva contribuito a riformulare.