Ci sono imprese editoriali realizzate senza troppe preoccupazioni di convenienza commerciale immediata o remota, semplicemente perché sono necessarie sul piano culturale o per salvare un patrimonio in pericolo di estinzione, che però poi scoprono di avere un mercato, di intercettare un bisogno, e diventano un successo non cercato né prevedibile e addirittura ripetuto. Fra questi, inaspettatamente, il progetto, avviato negli anni settanta alle Paoline e poi ripreso negli anni novanta dalla Jaca Book per le cure di Elio Guerriero e contemporaneamente dalle Editions du Cerf di Parigi, degli Opera omnia in oltre trenta volumi di Henri de Lubac, gigante della teologia cattolica del Novecento, che include lavori già introvabili poco dopo la prima pubblicazione. Oggi alcuni di questi titoli sono di nuovo esauriti e la Jaca ne sta producendo una ennesima edizione, col sostegno della Facoltà Teologica di Lugano: sono usciti da poco il terzo (pp. XX-761, traduzione di Paolo Stàcul) e il quarto tomo (pp. XX-638, traduzione di Ezio Brambilla) di Esegesi medievale I quattro sensi della scrittura, cioè di quello che può essere considerato il suo capolavoro, a loro volta parti della sezione quinta degli Opera denominata un po’ forzatamente Scrittura ed eucarestia (in realtà dedicata quasi completamente all’interpretazione della Bibbia).
Azzolino Chiappini nell’Introduzione ed Ezio Brambilla nella postfazione mettono in luce gli aspetti più spirituali e tecnici del percorso intellettuale che con Catholicisme: les aspects sociaux du dogme e con Surnaturel aveva portato il gesuita francese sotto l’osservazione arcigna della lente pontificia in quanto esponente di quella nouvelle théologie scambiata per «modernismo», la forma di teologia che, aprendosi alle conquiste della cultura contemporanea, si riteneva contrapposta al tomismo canonizzato dall’istituzione e che in quanto tale era stata condannata fin da Pio X come pericolo per la coerenza della fede e l’unità della Chiesa.
In realtà De Lubac non propugnava alcuna forma di modernismo, ma era l’alfiere principale e il conoscitore più profondo di uno degli strumenti-chiave di quel movimento: la storicizzazione della teologia (e dunque, potenzialmente, la sua relativizzazione) mediante l’analisi delle fonti patristiche e medievali. Per questo negli anni cinquanta, appena ripresosi dai rischi della Resistenza cristiana all’antisemitismo (che sarà il titolo del suo trentesimo volume), dovette scontare una sospensione dall’insegnamento a Lione e il ritiro delle sue opere. Ma erano anni di irresistibile cambiamento anche dentro la Chiesa, e con Giovanni XXIII e i suoi successori De Lubac fu prima riammesso all’insegnamento, poi dichiarato «esperto» del Concilio Vaticano II e infine nominato cardinale.
Chi si occupa di cultura medievale, spesso senza sospettare alcunché di questo profilo controverso e impegnativo e senza necessariamente nutrire interessi confessionali o professionali per le vicende ecclesiastiche, lo conosce appunto per i quattro volumi di Esegesi medievale, che guidano il lettore nel labirinto ermeneutico delle Scritture bibliche come erano intese nel Medioevo, cioè come fonte di una comprensione fortemente creativa basata su rapporti di derivazione logica e analogica e su un meccanismo, sublime quanto mostruoso, di concatenamento semiotico delle realtà storiche e materiali con i vari gradi di quelle spirituali, dal tipologico al morale al sacramentale all’anagogico, con tutte le loro infinite sovra- e sottospecie.
Nata da una schedatura massiccia e puntigliosa, resa possibile proprio dal divieto di attività pubbliche, dei commenti biblici dei Padri della Chiesa greci e latini e di centinaia di autori medievali, questa esplorazione, che De Lubac condusse con letture dirette e integrali in un’epoca ancora priva di strumenti elettronici, lo portò alla convinzione che l’infinita varietà e la relativa sistematicità dell’ermeneutica medievale derivino il loro nucleo propulsivo dall’impianto intellettuale di Origene di Alessandria (185-232), massimo teorizzatore della interpretazione allegorica delle Scritture. L’allegoria (variamente denominata nel tempo anche interpretazione psichica, mistica o spirituale), usata nel mondo post-classico per l’interpretazione filosofica dei poemi omerici, era diventata lo strumento strategicamente necessario per collegare l’Antico Testamento ricevuto dalla cultura ebraica al Vangelo e a tutto il Nuovo Testamento, che dell’Antico doveva dimostrarsi compimento, realizzazione, «adempimento». L’Adamo dell’Eden era «figura» o meglio «antitipo» del «tipo» che lo completava, cioè Cristo, così come l’Arca lo era della Chiesa e il diluvio lo era del battesimo e così via. L’espediente della «tipologia», già evidente negli autoriferimenti di Gesù riportati dai Vangeli e nella loro interpretazione paolina, diventa il grimaldello che collega cristianesimo ed ebraismo nei punti di possibile attrito e, insieme alle tecniche che tutti abbiamo conosciuto almeno nel Convivio di Dante come la tropologia (interpretazione morale), l’anagogia (realtà ultime) e altre ancora, sviluppa una serie di equivalenze figurali a volte basate su elementi linguistici come le etimologie dei nomi, a volte su somiglianze comportamentali (come per i Bestiari) o su ricorsività testuali, a volte su derivazioni audaci di dettagli secondari: colori, forme, suoni, anche concatenati (albero della conoscenza >albero dell’Arca di Noè >albero di Salomone >albero della croce e perfino della Fenice). Si crea così una rete di collegamenti diretti e indiretti, strutturali o accessorii, che, uscendo dalla Bibbia, diventa alfabeto comune della significazione filosofica, artistica e letteraria: quella che Umberto Eco definì pansemiosi, il processo per cui ogni cosa ne significa un’altra e questa un’altra ancora e niente è mai limitato alla sua superficie apparente. Da qui l’onnipresenza del simbolico che permea la mentalità medievale e che ha portato prima alle vetrate gotiche e al grandioso allegorismo del Roman de la Rose o della Commedia o di Pers the Plowman, poi, per vie nemmeno troppo traverse, al simbolismo della poesia europea contemporanea e alla radice antidogmatica del decostruzionismo, come ha mostrato un’infinità di studi.
Questa proliferazione creativa di analogie, che suscita un dibattito inesauribile sulla ricerca del senso legittimo, fondamento di ogni altro, è cresciuta su se stessa, commento dopo commento, con la ruminazione che rimastica il testo valorizzandolo ogni volta in maniera diversa, fino a «spremere troppo le sue mammelle»: così l’esplorazione dell’esegesi biblica condotta da de Lubac diventa esplorazione del pensiero medievale e della sua prorompente e sottovalutata variabilità e originalità. Esegesi medievale resta ancora oggi l’unico strumento che colleghi Gregorio Magno a Bernone di Reichenau, Ruperto di Deutz a Pietro di Celle, Pascasio Radberto a Ugo di San Vittore, Alano di Lille a Giovanni di Salisbury e così via in un elenco talmente fitto che nemmeno gli indici dei due volumi riescono a renderne conto senza lasciarsi sfuggire qualcosa.
Nella rete di De Lubac restano impigliate anche inaspettate gemme solitarie come una piccola storia dei dibattiti pubblici tenuti in tutto il Medioevo fra teologi ebrei e cristiani, che da sola fa piazza pulita di molti cliché, e un elenco delle tracce di conoscenza del greco (e di immagine culturale della grecità nel medioevo latino) che perfino la grande ricostruzione di Walter Berschin aveva trascurato, così come la storia del tentativo eroico, da parte di Riccardo di San Vittore, di spiegare le irrazionali misure del tempio descritto nella visione di Ezechiele con un’interpretazione «letterale» tecnico-matematica che aveva suscitato l’entusiasmo dei razionalisti: ma anche qui De Lubac riconduce a una mentalità fondamentalmente allegorica i testi che gli studiosi dei suoi tempi, come Beryl Smalley, cercavano di valorizzare come segni di un atteggiamento «moderno», storicistico, scientifico, rischiando spesso di travisare l’alterità specifica di quel millennio. In questa direzione sono esemplari le correzioni di rotta che il gesuita francese impone ai luoghi comuni sulla presunta «laicità» dell’umanesimo e in particolare su Erasmo di Rotterdam. E non manca nemmeno un’analisi diacronica dei metodi di critica e autocritica testuale e dialettica sviluppati nel Medioevo proprio dagli esegetici biblici: vi troviamo, attraverso la cascata di citazioni che costituisce la parte «medievale» del metodo De Lubac (brani che pazientemente i valorosi curatori traducono benissimo uno per uno: e sono migliaia), una rappresentazione dei diversi atteggiamenti psicologici dell’intellettuale biblista, che non risparmia perfino la caricatura. La parte «filologica» del metodo è rappresentata invece dalla ricontestualizzazione di ogni citazione nel testo da cui proviene, confutando le assolutizzazioni di segmenti che avevano portato altri studiosi a trarre conclusioni erronee da citazioni isolate.
Oggi il peso teologico ed ecclesiale di queste discussioni è quasi completamente evaporato ma l’attenzione agli effetti culturali e artistici delle letture medievali della Bibbia è invece enormemente cresciuta, come chiave indispensabile alla comprensione sia della comunicazione simbolica del tempo, dalle vetrate di Saint-Denis ai quadri di Bosch, sia dei suoi effetti a lungo termine sulla cultura occidentale; e niente meglio delle migliaia di pagine di Esegesi medievale ci può orientare nel groviglio delle loro radici, o meglio aiutare a perderci nella loro irriducibilità a ogni sistema.