Una storia critica che ha dell’avventuroso. Un nome (e quindi un’identità) che paiono inafferrabili, e che sono stati recuperati solo in tempi molto recenti. Al principio ci furono i nomi di convenzione, quelle etichette che si applicano a gruppi di opere coerenti tra loro ma che non è ancora possibile ascrivere a una concreta personalità, calata nella storia: il «maestro di». Così, a lungo, ci fu il Maestro delle Ore di Saluzzo, dal codice della British Library di Londra; ma anche il Maestro della Trinità di Torino, dalla bellissima tavola della Pinacoteca Sabauda, entrata nelle collezioni torinesi con il lascito di Leone Fontana nel 1909.
A ben vedere il nome di Antoine de Lonhy s’era affacciato alle vicende della moderna storia dell’arte già nel 1906, quando Salvador Sanpere i Miquel pubblicava Los cuatrocentisats Catalanos. Lì un documento del 4 maggio 1462 ricordava infatti de Lonhy come «habitator ville de Villana in Ducatu Savoye», cioè Avigliana, in Piemonte. Quel documento si riferiva a pagamenti legati alla vetrata del rosone della cattedrale di Santa Maria del Mar a Barcellona. Ma ci sarebbe stato bisogno di molto tempo prima che quel seme fruttificasse e gli studi fossero in grado di ricucire pazientemente trama e ordito dell’intera vicenda.
Fu Charles Sterling, in un articolo uscito sulla rivista «L’Œil» nel 1972, a collegare la tavola torinese a un gruppo di opere come la Presentazione al tempio del Bob Jones Univeristy Museum di Greenville (South Carolina). Sterling aveva avviato, nel frattempo, un dialogo con Giovanni Romano, che a sua volta si stava occupando delle opere riunite sotto l’etichetta del Maestro della Trinità di Torino. Romano aveva compreso assai bene l’alterità di questo dipinto rispetto al contesto piemontese – alterità che, del resto, era già saltata agli occhi di Pietro Toesca, che ne aveva ravvisato caratteri stilistici «borgognoni» quando ne aveva scritto su «L’Arte» nel 1909.
Dal canto suo François Avril aveva iniziato a studiare meglio il manoscritto della British Library noto come Ore di Saluzzo. Si era a una svolta cruciale: con gli studi di Avril e di Romano non solo si riconoscevano la comune paternità per le Ore di Saluzzo e per la Trinità di Torino, ma si riusciva a indicarne l’autore nel pittore Antoine de Lonhy. I due saggi, di Romano e di Avril, pubblicati sul numero 85 della «Revue de l’Art», avrebbero suggellato l’avvio definitivo della moderna vicenda storiografica dell’artista. Una vicenda complicata dunque, che ha sovente imposto agli studi delle soste forzose, poiché sembrava che non se ne sarebbe venuti a capo: tessere sparse emerse per caso; documenti senza opere, opere senza nomi; contesti geografici lontani.
Oggi è possibile avere un’idea dell’attività itinerante di questo enigmatico artista grazie alle belle mostre che sono state montate al Museo Diocesano di Susa (10 luglio-10 ottobre), curata da Vittorio Natale, e a Torino, a Palazzo Madama (fino al 9 gennaio 2022), a cura di Simone Baiocco e Simonetta Castronovo. Unico, invece, il ricchissimo catalogo, Il Rinascimento europeo di Antoine de Lonhy (Sagep, pp. 367, € 43,00). Le due mostre offrono un’occasione unica tanto per il pubblico quanto per gli studiosi, ed è un bene che le forze si siano unite per dar vita a un evento unitario articolato in due sedi. Riuscire ad ammirare, riunite, molte delle opere di de Lonhy dà ragione della grandezza di quest’artista versato in ogni tecnica (pittore, scultore, maestro vetraio, miniatore), che dà vita a un linguaggio delicato, attento alle variazioni luministiche, capace di innestare dettagli fiamminghi nella luce calda del sud. Una presenza difficile da non notare nel panorama della pittura savoiarda del Quattrocento. La complessa storia critica accennata sopra, che si segue come un moderno giallo e che meriterebbe di essere messa in romanzo, è narrata in apertura di mostra e, nel catalogo, affidata alla trascrizione di una conferenza che Giovanni Romano tenne a Torino nel 2014, in occasione di una piccola mostra dedicata allo stesso de Lonhy.
Un artista girovago che, dalla città natale di Autun, ben presto poté entrare in contatto con l’ars nova di Rogier van der Weyden e con uno dei committenti più sofisticati del secolo, Nicolas Rolin, dal 1422 cancelliere di Filippo il Buono duca di Borgogna, il cui volto è fissato da Jan van Eyck nello strepitoso dipinto del Louvre. Rolin, lo sappiamo da un importante documento firmato l’8 ottobre 1446 a Chalon-sur-Saône, richiede i servigi di un «verrier» e di Antoine de Lonhy, pittore. Non ci resta nulla di queste opere ma, a giudicare dalla vetrata eseguita più di dieci anni dopo a Barcellona (1460-’62), de Lonhy doveva aver maturato una grande perizia per quest’arte complessa.
Da Barcellona (Museu Nacional d’Art de Catalunya) e dal Museu del Castell de Peralada, presso Girona, sono stati prestati la parte centrale e due piccoli scomparti del retablo che raffigura la Vergine, sant’Agostino e san Nicola da Tolentino, che il ricamatore Antoni Sadurní aveva pagato a de Lonhy nel 1462. Negli anni cinquanta è a Tolosa. Poco sappiamo del trasferimento (a propiziare l’arrivo in città fu forse l’arcivescovo Bernard de Rosier) ma dovette essere anche questo un viaggio legato all’arte vetraria se, nel 1460, de Lonhy è beneficiario di pagamenti per quattro vetrate per il palazzo comunale. Eppure, a giudicare da ciò che è rimasto, a Tolosa dovette avere un’attività piuttosto ampia, come testimoniano ad esempio i frammenti di affreschi, datati 1454, provenienti dalla chiesa di Notre-Dame de la Dalbade, riscoperti e staccati nel 1891.
E poi, i codici. Quei meravigliosi codici miniati di cui de Lonhy era maestro altissimo. La miniatura è, tra tutte quelle praticate da de Lonhy, l’arte che permette di seguire meglio il suo percorso. Spesso infatti è possibile collocare meglio nel tempo e nello spazio un codice miniato di un singolo frammento di pala d’altare o di una scultura erratica. Di certo, l’importante codice della British Library, il namepiece di uno dei due gruppi di opere riuniti a inizio Novecento, fu eseguito per un membro della corte di Savoia intorno al 1465-’70. E il pittore fu attivo anche negli anni seguenti, quando eseguì opere come I tre profeti del museo di Lione, collocabili sul 1480 circa.
La mostra di Susa-Torino permette finalmente di apprezzare in tutta la sua complessità un artista che seppe fondere le novità lenticolari fiamminghe con la pittura mediterranea, aprendo una via che sarà quella che percorreranno anche altri grandi artisti francesi. Le novità messe in campo sono importanti, come la possibile committenza della Trinità di Torino che Simone Bonicatto e Bernardo Oderzo Gabrieli hanno ricondotto a Remigio Panissera, figura di spicco tra Pinerolo, Asti e Moncalieri, che proprio nella Collegiata di quest’ultima cittadina aveva il patronato di una cappella dedicata alla Trinità. È una mostra che invita anche a riflettere sulla complessità della storia e della geografia artistica, in contesti in cui, di fatto, i confini erano permeabili e figurativamente si diffondevano varianti locali di linguaggi comuni.
Sono passati vent’anni, tondi, da un’altra grande mostra, El Renacimiento mediterráneo, che si tenne al museo Thyssen di Madrid e al museo di Valencia nel 2001, mostrando quanto fosse stato fruttuoso l’incontro delle diverse varianti dell’arte del XV secolo tra nord e sud Europa. Questa di Susa e Torino è un’esposizione che prosegue idealmente quella linea di ricerca, assegnando ad Antoine de Lonhy il giusto posto che gli spetta tra i grandi artisti del Quattrocento europeo.