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De Gregori canta Dylan

De Gregori canta DylanFrancesco De Gregori – foto di Daniele Barraco

Musica Esce oggi nei negozi il tributo che il cantautore romano dedica all'ex menestrello di Duluth. Undici brani estratti da un canzoniere infinito, tradotti - fedelmente - in italiano

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 30 ottobre 2015

In uno dei luoghi più felici della Milano che tra pochi giorni resterà orfana dell’Expo, l’Osteria del Treno l’ex-ritrovo con altri odori e sapori di un dopolavoro ferroviario ormai perduto per sempre, Francesco De Gregori con le immancabili sneakers ai piedi, occhiali da sole e cappello in testa, è rilassato e ben disposto – come ripete sorridendo – “a voler spiegare fino allo sfinimento ogni cosa, tanto poi finite le chiacchiere il disco va ascoltato, ma va anche spiegato”.

Perché, soddisfazione a parte e non siamo dalle parti dello “stetson” di eliotiana memoria, né di Pound si tratta, ma scivolando giù dalla poesia alla canzone, l’ultima fatica (“eccome se ci ho lavorato”) discografica ha già nei titoli, De Gregori Canta Dylan. Amore e furto (Caravan/Sony), la dichiarazione personale d’assoluta venerazione tributata dal cantautore romano all’ex-menestrello di Duluth, il più popolare e controverso poeta-cantante del mondo. Se potesse, oggigiorno, ancora esistere una categoria del genere. I doveri, purtroppo, sembrano altri, soprattutto quelli del marketing, tant’è che lo stesso De Gregori domanda “le pentole dove sono?”.

30De Gregori canta Bob Dylan-Amore e Furto_cover_b

D’altronde, ne ha messe di cose in circolo nello spazio di pochissimo tempo. Ad un anno dall’uscita di Viva voce, quasi un successo insperato per i due dischi di platino conquistati, e dei concerti seguiti culminati nel “Rimmel 2015”, celebrazione live all’Arena di Verona del suo disco più importante. Dunque, riepilogando: un album in uscita, il giro negli store Feltrinelli che partirà stasera da Piazza Piemonte alle ore 18,30 con intervistatore d’eccezione Carlo Feltrinelli (“non so cosa mi dirà. Di certo ci sarà rimasto male quando ad una sua telefonata gli risposi che mica stavo lavorando ad un disco su Dylan”), l’intervista televisiva realizzata da Sky Arte (in onda alle 21,10 sempre stasera), la riedizione del libro autobiofotografico Francesco De Gregori. Guarda che non sono io (SV Press) con annesso dvd (“è il nostro piccolo Magical Mistery Tour, backstage dei giorni trascorsi a Londra, Amsterdam, Zurigo realizzato da Alessandro Arianti, il mio pianista. Ha fatto tutto lui, non ho assistito al montaggio, mentre nel libro la narrazione l’ho cucita personalmente attraverso la collazione di una serie di interviste”), ed infine la preparazione del Tour che partirà a Marzo del prossimo anno per concludersi nel mese di settembre:”non so ancora la struttura. So che vorrei suonare interamente il mio Dylan.

Non lo mischierò a mie canzoni. Forse saranno due parti, di certo queste canzoni manterranno la loro caratteristica di unitarietà musicale”. Ed è proprio sul suono che De Gregori concentra il suo discorso, a dispetto di chi lo desidera fermo e attento solo sulle traduzioni delle undici esclusive tracce dell’album:”non c’è ne sono altre. Solo undici canzoni sono riuscito a tradurre. Avrei voluto anche Just Like a Woman, ma non ci sono riuscito. Talvolta capita di bloccarsi ai primi versi e non sempre si riesce ad andare ad avanti.

Mi era capitato e fortunatamente sono riuscito ad andare avanti con Sweetheart like you e con Dignity”. Pensare che sono i brani testa-coda dell’album. “Non c’è stata una scelta premeditata nella loro scelta. Conosco bene il canzoniere di Dylan. Quindicenne ho cominciato ad amarlo e a tradurlo come traducevo le versioni di latino al ginnasio e le canzoni di Leonard Cohen, molto prima di diventare un professionista”.

“Poi con Fabrizio De André tradussi e lui suonò Desolation Row che oggi molto meno pieni di noi rivisito con molta fedeltà”. Proprio questa fedeltà al testo e talvolta la consapevolezza dell’intraducibilità di alcune frasi, avvicinano De Gregori, forse a sua insaputa, a quella dannazione del tradurre che colpì al petto la poesia ermetica degli anni trenta. La storia si sa ama ripetersi e se passasse non solo per i grandi accadimenti, ma anche per cose minime come questi piccoli diamanti musicali, arrivati dal più politico degli artisti americani qui in Italia con tutti i tic e vezzi linguistici di uno dei nostri migliori cantautori, non sarebbe poi così male. Fabio Francione

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