Fuori dalla storia. Anche dalla Storia della Musica e persino da quella della musica italiana, che delle purezze identitarie si fa beffe sulla base di una tradizione meticcia e sì, qui possiamo dirlo, piuttosto millenaria.

Ci risiamo con la questione delle quote da garantire per legge alla musica «nostrana» nei palinsesti radiofonici nazionali, un disco rotto che di tanto in tanto torna dagli archivi dell’Eiar e che solo la Francia – da odiare e invidiare selettivamente – è riuscita a elevare a giurisdizione moderna (nel 1994) con sfoggio di sovranistissima eccezione culturale e buona pace di liberté, egalité eccetera, soprattutto eccetera.

In Italia – dove l’idea riscuote ancora entusiasmi tripartisan – ci si riprova dopo diversi tentativi finiti nel nulla e stavolta il refrain si arricchisce di una nota cattivista alla moda: almeno una canzone italiana ogni tre deve essere italiana, pena lo spegnimento dei trasgressori «da un minimo di otto a un massimo di trenta giorni».

Primo firmatario e sponsor della proposta di legge, intitolata «Disposizioni in materia di programmazione radiofonica della produzione musicale italiana», è Alessandro Morelli, deputato leghista che presiede la Commissione trasporti e telecomunicazioni della Camera, per competenze acquisite immaginiamo come direttore di Radio Padania. Vale quindi la pena di prendere la gloriosa ex voce della Lega pre-nazionalista come riferimento, per capire come sarà la radiofonia musicale italiana a venire. Magari solo per tirare un sospiro di sollievo.

Nonostante il passaggio delle consegne a Giulio Cainarca risalga a quasi un anno fa, sulla home page dell’emittente Morelli figura ancora come direttore che «dà un grande spazio nel palinsesto al Territorio, alle identità, perfino alle lingue e ai dialetti!». Ma gli amanti del wolof hanno poco da stare allegri, qui si parla con tutta evidenza di lingue (perfino) e dialetti italiani, visto anche il cenno alle «buone vibrazioni del territorio» e alla musica a km zero, cose di buon senso che potrebbero scrivere anche i Sud Sound System. Ma l’esemplificazione è sconcertante: un nuovo «cd-compilation» (termini esterofili che la transalpina legge Toubon proibirebbe severamente), in esclusiva per Radio Padania, di Marco Papetti, figlio ed epigone di Fausto Papetti, che promette «musica di facile ascolto, miscelata a note di lounge music e bossanova, (…) brani che riflettono le varie influenze musicali che si rifanno al Brasile, allo smooth jazz e anche ai ritmi più nostrani e popolari come la cumbia e la beguine».

Cumbia e beguine musica «nostrana»? Ma allora siamo d’accordo: la confusione regna sovrana, il meticciato batte inesorabile il suo tempo e la musica non potrà che uscirne migliorata. Volendo strafare, si potrebbe stabilire per legge che un brano su tre abbia il caratteristico incedere in 2/4 della cumbia, musica nata in Colombia da un favorevole incrocio di umori afroindioispanici.

 

 

Anche perché una bella analisi costi-benefici dimostrerebbe quanto stonata e fuori tempo suoni una proposta di legge come quella depositata alla Camera, dal momento che in media la percentuale di «prodotti nazionali» che passano sulle radio italiane supera alla grande la quota di un terzo che ora si vorrebbe imporre come rozza declinazione sonora del ritornello «Prima gli italiani». Gli italiani in sostanza vengono già prima, anche se capita che si chiamino Mahmood o Ghali.

«Straniero, resta ancora un po’, non importa quanto» cantava invece Lucio Battisti. Vero o presunto o del tutto inventato che fosse il suo rapporto elettivo con la destra, è sicuro che la destra di oggi gli ha voltato bellamente le spalle. Non certo per un testo così, peraltro opera di sua moglie Valeria Rossi, quanto perché oggi Salvini ministro anche della Canzone non perde occasione di twittare il suo amore per De Gregori e De André. Certo senza condividerne gli ideali, ma con la scusa che la buona musica non ha colore, la musica è musica. La parola invece non è, anche se cantata. E la musica italiana è musica, mentre quella del resto del mondo è nella migliore delle ipotesi espressione mafiosa delle major, le multinazionali del disco, che dischi non ne vendono più ma tornano ancora utili per incarnare il ruolo mefitico che sulla scena politica è attribuito alle famose «élites». Ormai quasi estinte e soppiantate dal nuovo, ma ancora ostacolo perché la musica italiana torni grande again.

Ma forse l’allarme protezionista sulle sorti della canzone nostrana è solo questione di soldi soldi soldi,. Sono dazi à la Trump, quelli a cui pensa questo governo, che all’heavy metal inteso come industria siderurgica preferisce la canzone melodica italiana. Lo scopo è sempre quello nobile di difendere il lavoro, le imprese italiane. Che non sono minacciate dalla canzone cinese, beninteso, ma dalla musica «straniera» in genere.
Tanto più dopo un’edizione del festival di Sanremo ricca di spunti, tra canti e controcanti ministeriali, e ritenendo le divisioni sulla canzone italiana più rassicuranti rispetto a tutte le altre sul tappeto, torna inesorabile il vecchio adagio.

Trump non lo fa, ma solo perché nelle radio americane solo una canzone su tremila potrebbe non essere a stelle e strisce. E poi a lui piace troppo Bocelli per rinunciarvi.