È possibile, anzi probabile, che il nome di Mark Dawson non vi dica niente, a meno che non vi siate imbattuti nell’unico suo romanzo tradotto in italiano: La vendicatrice (Longanesi 2017). In questo caso ricorderete forse che lo strillo di copertina prometteva ai lettori «una nuova, vulcanica protagonista disposta a tutto, un thriller adrenalinico, un esordio che ha scalato le classifiche».

Sulla veridicità di questi strilli, si sa, sarebbe opportuno chiudere tutt’e due gli occhi. Se l’eroina del romanzo (Beatrix Rose, ex spia decisa a vendicare il rapimento della figlia e l’omicidio del marito) sia un vulcano, se il thriller scateni adrenalina, lo lasceremo dire a chi ha letto il libro. Possiamo invece affermare tranquillamente che La vendicatrice non è un esordio, perché la pagina di Wikipedia dedicata a Dawson registra almeno una dozzina di titoli pubblicati in precedenza. Quanto alla scalata delle classifiche, è uno sport che a questo intraprendente avvocato inglese, riconvertitosi in romanziere seriale, deve piacere molto. Anche a rischio di cadute rovinose.

Nei giorni scorsi, infatti, di Dawson si è parlato sui media britannici per i metodi spicci con cui il suo ultimo giallo, The Cleaner, uscito a fine giugno, ha (brevemente) conquistato l’ottavo posto nella top ten del Sunday Times. Scrive David Barnett sul Guardian: «Il risultato sarebbe notevole per qualsiasi autore, ma Dawson ha fatto qualcosa di particolare: ha comprato 400 copie del suo libro, per un costo complessivo di 3600 sterline, in modo da spingere le vendite ed entrare fra i best seller».

Nel suo sito Self Publishing Formula, sorta di guida all’autopubblicazione per aspiranti autori, Dawson ha scritto che le 400 copie erano destinate ad altrettanti lettori di cui lui stesso aveva sondato la disponibilità all’acquisto quando aveva deciso di dare una spintarella a The Cleaner, arrivato per propri meriti tredicesimo in graduatoria. Ma la spiegazione non ha convinto il Sunday Times, e il libro è stato espulso dalla top ten.

Non così severo – nota Barnett – è stato il New York Times quando l’anno scorso Triggered di Donald Trump jr è schizzato in cima alla categoria non-fiction perché il comitato nazionale del partito repubblicano aveva comprato copie per poco meno di centomila dollari. Il punto è che a diventare best seller si guadagna: «Secondo uno studio del 2004 far parte della top ten del New York Times porta a un aumento delle vendite del 57 % per gli esordienti e del 13 % per gli altri». Percentuali che, con la crescente divaricazione fra titoli che vendono tantissimo e titoli che vendono poco o pochissimo, forse oggi sono più alte.

Resta da vedere quali di questi libri resteranno fra dieci o cent’anni. Una sparuta minoranza, certamente. E tuttavia il loro successo può dirci molto sui gusti della società che li ha – sia pure per poco tempo – incensati. Così almeno la pensa la redazione di Lapham’s Quarterly, che ha appena avviato il progetto Forgotten Best Sellers. Perché, per esempio, La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher Stowe continua a essere letto e citato, mentre romanzi simili che hanno venduto centinaia di migliaia di copie sono spariti dagli scaffali e dalla memoria? Per capirlo, la rivista ha realizzato una nuova edizione digitale di Lady Rose’s Daughter di Mary Ward, caso dell’anno nel lontano 1903, invitando il pubblico ad aderire a un gruppo di lettura sul libro e proponendo saggi di approfondimento. C’è pure un’infografica su Come si scrive un best seller. Tra gli altri, un suggerimento di Toni Morrison: non aiutare troppo i lettori. Saggio consiglio, che purtroppo pochi scrittori oggi seguono.