Sembrerebbe ormai assodato che l’impero romano impegni il pensiero degli uomini occidentali più volte al giorno; gli uomini italiani poi, come suggerito dal titolo di un recente pamphlet, parrebbero addirittura vagheggiare il bel tempo in cui ‘noi’, diretti eredi dei Romani, eravamo ‘padroni del mondo’. Che fare, in Italia, per contrastare il retaggio di una retorica fascista e coloniale associata allo studio dell’antichità romana, e allo stesso tempo rivitalizzare gli studi classici per rispondere alle esigenze di una classe studentesca, italiana e internazionale, sempre più diversificata, intellettualmente curiosa e politicamente impegnata?

Il volume 63 della «Rivista di storia della conflittualità sociale» Zapruder, Romani Eunt Domus, fornisce risorse e risposte a una questione che accompagna la conflittualità sociale del presente quanto del passato. In copertina, il busto classicheggiante di un condottiero contrasta con la sua bianchezza i colori cangianti di accessori punk-rock, dalla giacca azzurra con le borchie alla cresta verde shocking che spruzza fuori dall’elmo. La figura ricorda gli esperimenti pop di Francesco Vezzoli (la statua di Antinoo decorata con il lampo di Ziggy Stardust) o la mostra Recycling Beauty, curata da Salvatore Settis per la Fondazione Prada, in cui proprio l’anacronismo della ricontestualizzazione metteva in risalto l’estetica dell’antico. Come scrive Valentina Cabiale in «Zapruder» 63, «l’antichità è un’eccedenza di senso alla quale concediamo valore in modo incondizionato». L’antichità non è tale senza lo sguardo del presente.

Che lo studio dell’antichità classica sia inestricabilmente aggrovigliato alle varie storie dei suoi riusi e reinterpretazioni, in Italia si sa da tempo. Eppure, come suggeriscono Emilio Zucchetti e Michele Bellomo (esponenti di un gruppo di ricerca su Antonio Gramsci e la fortuna dell’antico), i cosiddetti studi di ‘ricezione del classico’ faticano a essere presi seriamente negli atenei italiani, e la ‘critical theory’ (che altro non è che una ricerca e riflessione sul metodo) viene vista con sospetto nei dipartimenti di antichistica.

Ultimamente, questa diffidenza negli studi di ‘ricezione’ si è unita a un vero e proprio ‘panico morale’ (Zucchetti) nei confronti di un movimento di ‘decolonizzazione’ del classico che viene accusato, per citare il titolo di un recente volume di Mario Lentano, di mettere i ‘classici alla gogna’ in nome del fantasmatico spauracchio della ‘cancel culture’. Romanes Eunt Domus, citazione di una nota scena del film Vita di Brian dei Monty Python, presenta un forte intreccio corale di risposte originali a quella che Francesco Boccasile chiama, nel caso di Lentano, una «difesa scomposta e non richiesta dei romani» che, se non mossa direttamente da mala fede, finisce ad ogni modo per prendere notevoli «cantonate sul presente».

I contributi variano: in temi, formato, registro, lunghezza. Nel bel mezzo del volume, Daniele Bigi e Alessandro Mascherucci ci costringono a ruotare il libro di novanta gradi per leggere del riuso architettonico della rotonda di San Bernando a Roma, rendendo visivamente quel cambio di prospettiva necessario a comprendere come la storia della ricontestualizzazione dell’antico si intersechi con la rielaborazione dello spazio e dello sguardo. In coda al volume, un fumetto di Andrea Chiappino sul tucidideo dialogo dei Melii si riallaccia visivamente allo studio di Marianna Drago sulla risemantizzazione e riappropriazione del concetto di ‘democrazia’, su cui si sofferma anche Mattia Di Pierro nella sua analisi congiunta del pensiero di Machiavelli attraverso uno studio del politologo americano John McCormick.

Sia le elezioni americane sia la corrente situazione politica italiana incombono come un’ombra su Zapruder 63, e Francesco Boccasile ci ricorda di come Trump abbia cercato complicità con Mattarella proprio sulla base di una supposta comune discendenza dai romani. I cosiddetti ‘zoom’ ci aiutano a riconnettere alcuni punti della complicata storia del rapporto tra classicisti ed eurocentrismo dall’unità d’Italia fino a oggi. Andrea Avalli mette in luce rapporti e collusioni tra antichisti e fascismo, per poi soffermarsi sul ruolo politico degli antichisti italiani nel dopoguerra; nella stessa sezione, Emilio Zucchetti fa invece il punto, già in parte ribadito da Alice Borgna, su come le richieste di diversificazione e ‘decolonizzazione’ dei classici provenienti soprattutto da contesti americani siano state traviate e distorte nel discorso giornalistico e accademico italiano; la cosiddetta ‘cancel culture’ non è altro che il «collante ideologico» di una destra reazionaria, supportato e promosso dai media tradizionali, e specialmente da un allarmismo tipico del giornalismo italiano.

Questioni di genere e patriarcato non sono estranee al volume, ma la proporzione delle donne rimane preoccupantemente bassa: 4 su 19, o su 20, se contiamo l’autore della copertina (Michele Bertoletti), che ritrae, non a caso, il busto di un uomo. Ambra Russotti ci ricorda che l’Italia è stata in un certo senso all’avanguardia nell’organizzare un convegno su La donna nel mondo antico nel 1986, e vanta nomi quali Eva Cantarella, Francesca Cenerini e Medea Norsa, su cui pesò quello che Russotti giustamente chiama il ‘sessismo mastodontico’ dell’accademia italiana, e la misoginia esplicita di noti studiosi quali Giorgio Pasquali. Tanto rumore sulla prima traduzione di Omero da parte di una donna in lingua inglese (Emily Wilson), ma molte di noi ci siamo fatte le ossa sulle traduzioni epiche di Rosa Calzecchi Onesti; si aggiunga poi lo studio dell’antico mescolato alla critica femminista nel pensiero di Adriana Cavarero, quasi più nota all’estero che in Italia tra le classiciste della mia generazione. Russotti fornisce i gravi numeri della ‘leaky pipeline’ dell’accademia italiana: se le donne iscritte ai corsi di laurea in materie umanistiche formano il 77,8% del corpo studentesco, scendono al 48,4% già nei contratti di tipo B, al 49% nell’associatura, al 33,73% nell’ordinariato.

Manca ancora, in Italia, un discorso su cosa costituisca nel campo degli studi classici una pratica femminista, che ben differisce dallo studio delle figure femminili in fonti storiche, artistiche e letterarie (analizzate nel volume da Carmen Ruiz Vivas in termini del rapporto tra la femminilità e ideologie della pax romana), ma che implicherebbe un serio dialogo con pensieri e movimenti femministi, da un punto di vista ‘intersezionale’ che viene a mancare in questo volume: non troviamo, ad esempio, interventi su transessualità, disforia di genere, orientamento sessuale, disabilità, neurodivergenze. A parte il contributo di Avalli, che (come detto) ha l’importante merito di mettere in luce i rapporti tra classicismo, razzismo e colonialismo italiano, e l’interessante affondo di Alessandro Cristofori, che si sofferma su un campo di studi in crescita quali lo studio comparato dell’antichità occidentale e asiatica (in particolare, il confronto tra impero romano e impero cinese), le questioni razziali appaiono qui quasi in sordina, come se raggiungessero l’Italia in differita dagli Stati Uniti. Sorprendentemente, Alessandro Roncaglia critica la scelta di un attore nero quale David Gyasi a interpretare l’Achille della serie tv Troy: Fall of a City, sostenendo che la diversità etnica in uno sceneggiato sull’antichità debba essere riservata al cast della «servitù domestica» (!).

Nell’insistenza su una rappresentazione il più possibile ‘realistica’ del passato durante il racconto della propria consulenza allo sceneggiato Domina, Roncaglia sembra incarnare quel centurione romano di Vita di Brian, ossessionato dalla scorrettezza grammaticale della frase Romanes eunt domus, ma fondamentalmente sordo al messaggio antiromano e anticoloniale. Si coglie qui un rifiuto a ragionare sulle differenze tra i concetti di ‘razza’ ed ‘etnia’, e sul fatto che le categorie razziali del passato non siano le categorie razziali della modernità e del presente. Vi è inoltre scarso riconoscimento di quanto le rappresentazioni pop e divulgative dell’antico possano influenzare la percezione generale della disciplina, attirando o allontanando studenti e studentesse dagli studi classici. L’Achille di David Gyasi può avvicinare persone di colore allo studio di Omero. E se anche così non fosse, è Brad Pitt davvero più credibile?

Zapruder 63 va lodato per aver presentato un coro in risposta a un certo conservatorismo proprio degli studi classici in Italia; ma in un’Italia sempre più diversificata, e con un corpo studentesco sempre più radicalizzato, mi auguro che questo sia un trampolino di lancio per dare spazio ad altre voci e altre prospettive purtroppo ancora marginalizzate.