Davide Toffolo è tra i protagonisti della (ri)nascita avvenuta verso la fine degli anni ’90, del fumetto d’autore come storia autoconclusiva. Basterebbe già questo a fargli meritare l’attenzione dei lettori, nonché il suo ruolo di frontman della rock band Tre allegri ragazzi morti; ma all’indomani dell’uscita di Come rubare un Magnus (Oblomov Edizioni), Toffolo si conferma soprattutto un autore coerente.

La sua cospicua produzione a fumetti oscilla tra lavori autobiografici (come Graphic novel is dead e Graphic novel is back pubblicate da Rizzoli) e le precedenti biografie, nelle quali non vengono mai meno la finzione, il sogno, la dimensione immaginifica. Impossibile non ricordare la storia di Carnera, fumetto uscito 20 anni fa e poi ripubblicato nel 2015 da Coconino, che narra dell’indimenticabile pugile, il gigante col sorriso, e della sua ingenuità, seconda solo alla sua straordinaria forza; o quella di Pasolini, nella quale è Davide stesso a mettersi sulle tracce dell’intellettuale friulano per riscattarne la profondità, l’inquietante attualità delle idee, per arrivare infine alla biografia «etologica» dedicata a Copito de nieve, il gorilla albino vissuto nello Zoo di Barcellona fino al 2003.

Oggi che Toffolo firma la biografia di un maestro indiscusso del fumetto italiano, Roberto Raviola, in arte Magnus, e la sua coerenza di autore si materializza nella scelta di includersi come personaggio e nell’obiettivo di costruire una fiction funzionale al racconto della vita dell’autore bolognese, ne abbiamo parlato con lui.

Come hai avuto l’idea di infilarti nei tuoi fumetti e nello specifico in questo?
Mi piace l’idea di fare l’attore nei miei fumetti.
In Pasolini interpreto lo scrittore che il mitomane Pasolini cerca per mostrarsi, ne Il re bianco uno scrittore adulto e borioso che incontra una ragazza poco più che adolescente e con la quale parte alla scoperta del gorilla, in Come rubare un Magnus interpreto un autore di fumetti contemporaneo.
Il personaggio mi assomiglia, ha la mia faccia, ma non sono completamente io. Sono distribuito anche in molti altri miei personaggi.

Nel 1979 hai vinto un premio come nuovo disegnatore di Alan Ford, personaggio storico della coppia Magnus-Bunker.
Sì, quello è stato il mio primo «furto» di un Magnus.
Ho raccontato la cosmogonia di Alan Ford dentro alla struttura della «creazione» di Michelangelo. Un disegno grande, 100×70! Immagina un bambino che spedisce un disegno da Pordenone e poi apre il suo giornalino preferito e scopre di avere vinto.

Uno dei dettagli narrativi che più ho apprezzato è questa tensione tra l’ammirazione per il Magnus, e la distanza dalla quale lo osservi e racconti. Credo che questo equilibrio scongiuri un primo transfert con il maestro e accresca il sentimento verso Magnus che somiglia più a gratitudine.
La mia è una BIOGRAFIA favolistica. Ci sono elementi reali in una struttura narrativa originale e fantastica.
Un omaggio alla vita ma anche all’opera di Magnus. E di Bonvi anche. Il secondo gigante in questa vicenda.

Ti ha aiutato la struttura narrativa-la cornice contrapposta al flashback-o anche il personaggio del fisioterapista?
Penso che l’invenzione e la credibilità siano le doti di uno scrittore. Il ritmo delle puntate, dato dalle uscite su Linus ha scandito la narrazione. Poi bisogna dire che sono stato fortunato con i personaggi.
Mentre li animavo, sentivo la voce di Magnus e Bonvi nella mia testa, le sento ancora rileggendo il lavoro. Quando faccio i fumetti sono una specie di medium che dà voce ai suoi personaggi.
Il fisioterapista cieco è nato inizialmente come sfida, poi ha cominciato a parlare da solo.

Di fronte a questo personaggio ho pensato: Magnus è così divino, così incredibilmente versatile, così grande, che anche un cieco riuscirebbe ad apprezzarlo. Solo dopo mi sono resa conto che il personaggio del fisioterapista è non vedente dalla nascita. Lo trovo comunque un paradosso funzionale al tuo desiderio di condividere l’arte di Magnus, anche con chi sembrerebbe non poterla giudicare. Che ne pensi? Quali sono le caratteristiche più evidenti nel lavoro di Magnus, per te, come lettore e collega?

Gli autori di fumetti sono inventori di mondi. Il disegno è una parte importante ma volevo raccontare questo: c’è il disegno, il segno ma anche la costruzione letteraria di un mondo.
Per questo poi i fumetti possono diventare anche altro e questa era la sfida con il fisioterapista. L’estate scorsa ho suonato alla Mole Vanvitelliana di Ancona e li c’è un museo d’arte per non vedenti. Un’esperienza che consiglio a tutti.

Incontri il fisioterapista per curare il tuo mal di schiena. Lui ti chiede come si diventa fumettisti, e tu gli racconti la storia di Magnus. Quindi la domanda è come si diventa Magnus e Stefano è un po’ simile a un analista?
Come si diventa Magnus? Bisogna avere talento ed essere pazzi per il fumetto.
Segreti non ce ne sono per diventare un fumettaro provetto. Una vita con i propri personaggi, oltre ogni cosa, sopra ogni altra cosa.

Il libro è strutturato in 5 parti, le stesse che Magnus difendeva quando parlava di una sceneggiatura, paragonandole alle dita di una mano. I personaggi sembrano comunque essere la sua e la tua grande passione, come se la fantasia si alimentasse delle vite vissute e la realtà di quelle immaginate. Sei d’accordo?

Credo sia proprio così. La gente è la mia passione.

Il sogno, la dimensione onirica, la visione attraverso il terzo occhio che si forma sulla fronte di Magnus, sono tutti elementi che lo accostano a una dimensione di medium: quanto l’artista ha il compito di tradurre l’indicibile o l’indescrivibile per il pubblico?
Quando sei fortunato succede proprio così.


La mostra dove avviene il furto del titolo è stata la prima personale dedicata a Magnus e si è svolta a Pordenone nel 2005. Ammesso che l’idea del libro sia nata in quel momento, perché è passato tanto tempo prima di pubblicare il libro?
Ho fatto tante cose fra una ripresa e l’altra per completare il libro su Magnus…4 dischi con i Tre allegri ragazzi morti, 1.000 concerti, libri a fumetti. E quando è arrivata la possibilità, ho chiuso questo lavoro. Ha coinciso con un periodo che è quello che ancora viviamo. La pandemia che mi ha costretto a stare al tavolo da disegno e che mi ha ricollegato con le paure e i ritmi di vita di quando ero ragazzo, e costretto a stare a casa. Quindi quella voglia di avventura è tornata ad esprimersi nei disegni.

La vicenda della tavola rubata porta in sé il tema dell’unicità dell’originale, della riproducibilità del mezzo fumetto e del conseguente valore dell’originale e dell’opera finita. Per un autore come Magnus lavorare sul fumetto seriale con costanza era una fonte di reddito, cosa che forse non è altrettanto vero per un autore di graphic novel oggi. Nel libro sembrate entrambi sostenere la tesi che non è importante il compenso ma l’opera compiuta. È così?

Esiste una dimensione ALIMENTARE del lavoro. I fumetti seriali, industriali sono quelli ai quali sempre si è riferito Magnus nelle sue produzioni e dentro questo limite si sono sviluppati i suoi capolavori.
Il valore di un’opera si capisce nel tempo. Più passa il tempo, più quelle di Magnus risultano belle. Io invece ho quasi sempre seguito solo l’istinto e la forma liberata dalla serializzazione della Graphic Novel. Vivo un tempo diverso e godo delle conquiste dei maestri della seconda metà del secolo.

Nel tuo libro palpita il senso dell’amicizia profonda, tra Davide e il fisioterapista, ma soprattutto tra Bonvi e Magnus, colleghi e amici fraterni. C’è un Bonvi nella tua vita?
Beh, io sono uno dei Tre allegri ragazzi morti, quindi ho almeno due compagni di gioco.
Il gioco è una componente imprescindibile nella mia vita, e penso che fare i fumetti sia stato il primo gioco che ho imparato a fare.