Dopo il lungo lavoro dedicato a Mario+Rabbids Sparks of Hope, uscito da poco in esclusiva per Nintendo Switch, Davide Soliani si è concesso infine una meritata vacanza ma ha accettato di rispondere alle nostre domande sulla sua opera e sul suo rapporto appassionato e pluriennale con i videogiochi.

Ci racconti la storia del tuo amore per i videogiochi?
Da piccolo ero abituato a giocare con il Meccano, ormai sconosciuto ai più, ma all’epoca per me era un Minecraft fatto di viti, piccole chiavi inglesi, dadi, alluminio e un po’ di fantasia. La mia storia con i videogiochi inizia però sul Commodore 64 con Pit Stop. Probabilmente quella manciata di pixel che rappresentavano le macchine da corsa, e soprattutto le gomme che si consumavano mentre si gareggiava, devono avermi scosso parecchio. A colpirmi più di tutto fu il «dilemma» che il gioco mi poneva di fronte: continuo a correre per non sprecare tempo con il rischio che le gomme esplodano o vado ai box perdendo secondi preziosi, ma almeno mi assicuro di poter continuare a gareggiare? Ecco, questa era una cosa che mancava al Meccano: la differenza tra giochi e giocattoli.

Come hai realizzato che i videogiochi avresti voluto farli?
È una cosa che mi è stata chiarissima il giorno in cui, salendo sul tram, vidi un ragazzino che stava giocando con un Game Boy. Rideva come un pazzo e in quel momento ricordo che pensai che dovesse essere bellissimo essere il creatore di un videogioco in grado di regalare queste emozioni alle persone. Ero ancora molto giovane, comunque, e di tempo ne passò parecchio prima che potessi iniziare a fare qualcosa nel mondo dei videogiochi.

Con «Mario + Rabbids» hai rivoluzionato il gioco strategico a turni con una radicale possibilità di esplorazione e una maggiore mobilità durante i combattimenti. Ci dici qualcosa sulle origini di questi videogiochi?
Esistono innumerevoli tipi di giochi di strategia o giochi tattici, sia a turni che in tempo reale. Per me la strategia è qualcosa che si spalma in un lasso di tempo ad ampio respiro e prevede una grande fase di pianificazione. La tattica, d’altro canto, prevede un costante rimettersi in gioco e saper reagire al continuo mutare degli eventi. In tal senso, Mario + Rabbids Kingdom Battle e Sparks of Hope sono giochi di pura tattica, con una forte fase esplorativa. Trovo interessante il parallelismo con X-COM di Jullian Gollop, uno dei giochi che più ha influenzato la mia infanzia e il mio lavoro sulla serie Mario + Rabbids, che unisce sia tattica che strategia alla perfezione.

Come sei riuscito a convincere Nintendo, così legata ai suoi personaggi, a farti realizzare un gioco per Ubisoft addirittura con la loro stella per eccellenza?
Abbiamo dovuto affrontare due montagne: Ubisoft e Nintendo. Io ed altri 5 membri del team di Game Design ci siamo chiusi in una sala riunioni per circa un mese e mezzo, per una dozzina di ore al giorno. Abbiamo lavorato a diverse idee di gioco, circa tredici tra i più diversi generi, dal musicale ai picchiaduro, andando poi a scremare fino ad arrivare alla nostra ultima scelta: Kingdom Battle (gli avevamo già dato un nome che sarebbe diventato quello definitivo), un gioco che nella sua unicità, univa sia una fase di combattimento a turni che una fase di esplorazione ed avventura. Eravamo convintissimi che potesse funzionare perché non c’era nulla di simile nel catalogo di Ubisoft e Nintendo. Il problema principale però, era quello di convincere Ubisoft che un gioco di quel genere con i Rabbids avesse senso e non fu affatto facile. Quindi, abbiamo deciso di evitare la classica presentazione su PowerPoint, lunga e noiosa, ma ci siamo concentrati nel realizzare un grosso cartellone pubblicitario, come quelli che si trovano alle fermate dell’autobus o nei negozi di videogiochi, per dare, in un baleno, l’idea generale di quello che ci si poteva aspettare da un titolo del genere. Funzionò e in una manciata di giorni ci ritrovammo ad organizzare la presentazione del gioco a Miyamoto-san, il papà di Mario. Il problema è che noi non avevamo nessun gioco, solo delle gran belle idee in testa e un cartellone pubblicitario. Così ci siamo buttati a capofitto nella creazione di una demo realizzata in poche settimane. Non me lo scorderò mai perché fu una maratona lavorativa impegnativa ma ne valse la pena. Quando finalmente mi trovai davanti alla sala riunioni dove avrei conosciuto il mio punto di riferimento nel mondo dei videogiochi, Miyamoto-san, ero un pezzo di ghiaccio. Sarei voluto scappare via dalla paura e, come se non bastasse, 30 minuti prima della presentazione, accesi il laptop per un ripasso e Windows decise di installare gli ultimi aggiornamenti. Panico puro! Fortunatamente, finì poco prima che fosse il mio turno di entrare nella sala riunioni. Il resto, fortunatamente, andò bene: Miyamoto-san si disse impressionato dall’idea e mi chiese dove avessi preso i modelli poligonali di Mario e Luigi presenti nella demo. Gli risposi che li avevamo fatti apposta da zero per potergli presentare il gioco e immagino che fu lì che Miyamoto-san capì che aveva di fronte persone veramente appassionate.

Come va oggi lo sviluppo di videogiochi in Italia?
Molto è cambiato da quando ho iniziato io a sviluppare videogiochi in Italia. Ora abbiamo scuole, software house e team indie riconosciuti in tutto il mondo, mentre ai miei tempi le realtà videoludiche erano presenti ma si contavano sulle dita di una mano. Oltretutto il nostro ufficio di Milano è passato da 15 persone a quasi 150 nel giro di pochi anni, quindi direi che da questo punto di vista non possiamo lamentarci. Sicuramente del supporto dal punto di vista istituzionale potrebbe dare una spinta al settore come è avvenuto in altri paesi, in particolare il Canada, nel quale Ubisoft ha aperto numerosi studi nel corso degli anni. Certi numeri sono difficili da raggiungere senza un supporto istituzionale, anche se misure come il Tax Credit esteso ai videogiochi sono sicuramente un passo importante.

La percezione dei videogiochi da parte dei media e del pubblico italiano che non li frequentano e conoscono è cambiata in Italia o siamo ancora a «vince chi seppellisce viva la bambina»?
Penso che stia cambiando ma non è certo paragonabile alla percezione che si ha all’estero, dove lavorare nell’industria videoludica è considerato normalissimo e le scuole sono molto integrate con il mondo del lavoro. Per farvi un esempio, quando cercai casa a Milano il padrone di casa mi chiese che lavoro facessi e non capì, per ben due volte, quando gli risposi che facevo il Game Designer. La terza volta gli dissi solo che ero un designer, e allora si tranquillizzò, probabilmente immaginando che lavorassi nel campo della moda.

Trovi ancora il tempo di videogiocare? A cosa giochi?
Devo ammettere che il tempo che posso dedicare ai videogiochi è diminuito parecchio. Gioco sempre ma seleziono parecchio cosa giocare veramente, dividendo titoli per il mio piacere da quelli che voglio provare per questioni di lavoro. Ultimamente passo molto più tempo a fotografare e a scrivere su un taccuino, due mezzi che lavorano perfettamente l’uno con l’altro: la fotografia, soprattutto quella paesaggistica, mi aiuta a rallentare la frenesia del lavoro e crea le condizioni perfette per farmi venire idee per il futuro o il gioco al quale sto lavorando. Il taccuino invece, mi impedisce di dimenticarmene.

È forse presto per chiederlo ma in futuro tornerai a dedicarti a «Mario + Rabbids» oppure qualcos’altro ti sta animando la fantasia?
Ultimamente sento che mi piacerebbe esplorare nuovi orizzonti, anche se la serie Mario + Rabbids è nel mio cuore e amo tantissimo l’universo che abbiamo creato con il mio team e Nintendo nel corso di questi 9 lunghi e bellissimi anni. Mai dire mai, insomma.