Durante la pandemia a trecento ragazze e ragazzi della prima media sono stati affidati quattro diari con una domanda: cos’è il tempo? Da una domanda non così semplice è nato il film Nulla di sbagliato di Davide Barletti e Gabriele Gianni che in modo inaspettato sono riusciti a superare le distanze e per dare voce a un’età in cui il cambiamento è alle porte. Così Davide Barletti porta a termine il suo viaggio iniziato cinque anni fa con il film La guerra dei Cafoni, un viaggio esplorativo di un età che è terra di mezzo tra infanzia e consapevolezza, immaginazione e realtà.

Come nasce il film?
Il film nasce all’interno del progetto triennale #tu6scuola prodotto da CIAI in associazione con Cinemovel Fountadion e Con i Bambini nell’ambito del contrasto alla povertà educativa. Il progetto si concentrava su sei scuole sparse per l’Italia: Milano, Bari, Palermo, Ancona, Città di Castello e Rovellato, dove ogni anno abbiamo coinvolto una classe della prima media, un età molto stimolante in cui i bambini non sono più bambini ma non sono neanche adulti.

Per i primi due anni abbiamo lavorato sull’inclusione e la narrazione costruendo con i ragazzi delle storie finalizzate a realizzare delle opere a metà tra il video e il gaming, cioè un video gioco narrativo. Poi è arrivata la pandemia con il distanziamento e con Cinemovel abbiamo deciso di provare a rilanciare il terzo anno di attività facendo qualcosa di totalmente diverso, provare a lavorare con gli studenti da remoto. La riflessione è partita dal concetto di tempo, un tema che ci sembrava investisse i ragazzi in pieno soprattutto durante il periodo della pandemia in cui il tempo è sospeso.

Come avete lavorato con gli studenti?
Abbiamo iniziato con un incontro preliminare in cui abbiamo introdotto il tema del tempo sfaccettato nelle sue quattro declinazioni: passato, presente, futuro e il tempo onirico dei sogni. In questo incontro abbiamo consegnato ai ragazzi quattro diari cartacei, uno per ogni tempo, appositamente progettati da noi. Così gli studenti si sono confrontati con un oggetto del passato, in cui erano liberi di appuntare quello che volevano sia attraverso il disegno e le parole, sia con i video messaggi per chi non volesse scrivere. Il diario era un dispositivo di condivisione fondamentale tra noi che non potevamo accedere a scuola e soprattutto tra di loro che s’incontravano in un momento in cui la scuola apriva a singhiozzo per il lockdown. Nella seconda fase, attraverso un computer che controllavamo da remoto e due videocamere messe a scuola dai nostri collaboratori, abbiamo filmato in alta risoluzione dei momenti in cui i ragazzi commentavano il loro diario sia in gruppo sia singolarmente. Nella terza fase abbiamo fatto un lavoro più specifico: a dieci di loro abbiamo affidato delle piccole videocamere e gli abbiamo chiesto di approfondire alcuni temi emersi nei loro diari.

Come avete lavorato con i ragazzi e le videocamere?
Era impossibile fare un corso di riprese e non potevamo vedere il girato durante gli incontri saltuari, ma il risultato è sorprendente. Abbiamo cercato di non sovrapporci, il nostro ruolo era quello di facilitatori sia nel rompere quei moduli narrativi che hanno appreso dal linguaggio dei social, sia per far attivare un flusso di coscienza. È stato molto importante lasciare liberi gli studenti di esprimersi in totale autonomia, di raccontarsi al di fuori degli schemi che molte volte noi adulti usiamo per fare dei film sui ragazzi. Abbiamo la tendenza a trasmettere un immaginario che coincide con il nostro background ed è uno degli errori più grossi perché un ragazzino di undici anni ha uno schema completamente diverso da quello degli adulti. Sono stati capaci di donarci dei momenti estremamente personali che noi grandi abbiamo un po’ dimenticato. È stato un vero viaggio nel tempo un ritornare a quell’età e a quei momenti della cameretta, in senso metaforico, dove noi adulti non abbiamo accesso: la morte di un pesce rosso è una tragedia e un passaggio quasi di crescita, la cattiveria che c’è a volte tra i ragazzini, la volontà di non crescere; tutti elementi che forse in un film classico non avremmo ottenuto. Questo progetto per me è stato importante perché è la prosecuzione del lavoro iniziato con La guerra dei cafoni, ma è anche un congedo nella mia paternità da quella età, un addio da un mondo straordinario di cui la società sempre di più non s’interessa.

I ragazzi hanno dimostrato in alcuni momenti un senso della costruzione dell’immagine, con quale camere hanno lavorato?
È vero, ogni ragazzo aveva il suo modo di filmare, una vera e propria calligrafia video. Con Gabriele pensiamo che il cinema fatto in remoto apre nuovi punti di vista, dove la possibilità di auto filmarsi diventa una cifra linguistica e di racconto che in presenza è difficile ottenere. C’è una ragazza della scuola di Ancona che aveva più degli altri un senso della simmetria delle immagini, la chiamavamo la piccola Wes Anderson, era quella più dotata del senso dell’inquadratura.
Gli studenti hanno utilizzato una piccola telecamera, una specie di parallelepipedo che si può appoggiare dove vuoi, molto semplice da usare con la possibilità di ruotare la camera per osservare l’inquadratura.

Per loro è stato molto stimolante tanto da darli un nome umanizzando un po’ la camera, il robottino. La preadolescenza è un età veramente incredibile in cui l’immaginazione ha un potere sconvolgente che si confonde anche con il piano della realtà e nelle sequenze in cui i ragazzi giocano si ha la sensazione di immergersi in quella dimensione.

Avete notato dei cambiamenti in loro?
Sono sicuro che questo raccontarsi abbia influito molto sulla loro autostima, ci siamo accorti dei cambiamenti man mano che andavamo avanti: c’è Riccardo che apre il film dicendo che si sente rifiutato dai compagni di scuola, però poi alla fine del percorso fa i disegni per tutti; una bambina alla fine scopre in un inquadratura pazzesca la consapevolezza del caleidoscopio delle immagini. Il fatto di non essere presenti nella fase in cui i ragazzi si sono ripresi ci ha dato del materiale che non saremmo stati capaci di raccogliere ed è stato importante anche il lavoro preliminare fatto con i diari del tempo che ha permesso ai ragazzi di raccontarsi e condividere le loro idee.

Come avete lavorato al montaggio?
È stato un lavoro enorme di stratificazione, avevamo molto materiale disordinato, grezzo e facevamo fatica a vedere il piccolo arco narrativo di ogni studente. Ci ha aiutato la grande capacità del montatore Mattia Soranzo, il più distaccato tra noi, nel trovare quella piccola poesia all’interno del materiale. È stato un lavoro molto lungo durato quattro mesi. Le prime selezioni sono state fatte dalle due assistenti al montaggio Giulia Epifani e la compianta Martina di Tommaso che è stata la prima a vedere e selezionare il materiale. Io e Gabriele ci siamo avvicinati al girato molto lentamente e lo scatto è avvenuto quando abbiamo capito che dovevamo mettere da parte qualsiasi aspettativa da adulto e immergendoci nel punto di vista dei ragazzi; da lì è stato tutto più semplice.

Come avete scelto il titolo del film?
Abbiamo trovato il titolo grazie a Riccardo, il ragazzo che all’inizio del film si augura di andare a scuola e di non fare nulla di sbagliato. Questa frase ci ha colpito molto perché spesso noi adulti chiediamo a questi ragazzi di essere performativi, invece, lo sbaglio è qualcosa che deve accompagnare quell’età e magari anche la nostra età adulta. Non bisogna avere paura di sbagliare e questo insegnamento ci arriva da un ragazzo di undici anni.