Mi chiamo David Sansonetti, sono un giornalista e un videomaker freelance. Lavoro al Cairo, in Egitto. Il 25 Gennaio sono stato arrestato dalla polizia egiziana e accusato di spionaggio.

Sono stato catturato mentre facevo delle riprese durante gli scontri di piazza tra i supporter del regime militare e alcuni degli oppositori.

Ho rischiato il linciaggio da parte della folla al momento del mio arresto.

Sono stato minacciato e picchiato e poi detenuto in una cella di un metro per un metro e mezzo, nella stazione di polizia del quartiere di Abdeen.

Gli incidenti di cui sono stato testimone quel giorno sono avvenuti nei pressi di piazza Bab el-Louk nel quartiere di West el Balad, molto vicino a piazza Tharir. Questa zona è detta anche  Down Town Cairo, ed è stata il cuore pulsante della rivoluzione che portò alla caduta di Mubarak nel 2011. I caffè del centro sono il luogo dove i giovani rivoluzionari si sono incontrati, hanno parlato, si sono organizzati. Questi ragazzi, alcuni giovanissimi, pur essendo ostili e nemici naturali della fratellanza musulmana, si oppongono al colpo di stato dell’esercito e temono una restaurazione del vecchio regime.

Il 25 Gennaio è l’anniversario della rivoluzione che, nel 2011, ha portato appunto alla caduta del trentennale regime di Mubarak. Proprio piazza Tahrir, simbolo della rivolta, è stata scelta dal

generale al-Sisi per mettere in scena la commedia del “popolo dalla parte dei militari”. Gli accessi alla piazza sono stati sbarrati con i carri armati e a nessuno, eccezione fatta per i sostenitori del generale, è stato premesso di avvicinarsi.

Con una coreografia organizzata nella maniera più pomposa possibile e l’accesso garantito solo ai media del regime, la farsa ha ottenuto l’effetto sperato. Le riprese strette sulla folla, le immagini dei bambini con la maschera di al-Sisi al volto, il palco in stile concertone del primo maggio; tutti elementi di una propaganda ben studiata, con lo scopo preciso di dare un’immagine di se al mondo: un’immagine di unità e stabilità. Il generale con il suo popolo, unito e stretto intorno a lui, con lo sguardo dritto verso il futuro. Un papà buono e amorevole con i suoi figli obbedienti, duro e inflessibile con quegli scapestrati di rivoluzionari. Insomma l’uomo giusto al momento giusto.

La realtà è ben diversa e nasconderla non è cosi semplice. Solo durante la giornata del 25 ci sono stati scontri violentissimi in tutto il paese. Il bilancio finale, come sapete, è di 50 morti e 247 feriti gravi. Gli arresti, solo nella giornata dell’anniversario sono stati più di mille.

Mentre a piazza Tharir andava in scena la commedia del regime, nelle strade intorno, la guerriglia impazzava tra i sostenitori di Sisi e i rivoluzionari laici. Alla faccia di chi, soprattutto in occidente, vuole far passare la teoria del colpo di stato “voluto dal popolo”, per cacciare un presidente incompetente e fanatico.

L’idea che gli unici oppositori del regime siano gli islamisti, fa comodo al potere, perché è facile accusarli di atti di terrorismo ed è ancora più facile istigare all’odio contro di loro.

Dopo il colpo di stato attuato quest’estate, i militari stanno combattendo oggi la battaglia più difficile nella guerra dell’informazione. Il concetto di “stampa indipendente” non esiste neanche, ed è sufficiente possedere una telecamera e un passaporto straniero per essere considerati delle pericolose spie. E’ emblematico il caso dei venti giornalisti di “Al-Jazeera” detenuti in Egitto da dicembre accusati di “spionaggio” e di appartenere ad una organizzazione terroristica (Fratelli Musulmani). Tutt’oggi sono ancora in carcere.

Vige un clima di intimidazione e di violenza nei confronti di tutti i giornalisti stranieri, con particolare arroganza verso quei giovani che fanno del “freelancing” la propria passione e professione. Dopo il mio arresto, il mio collega Alessio Polveroni, con il quale divido un appartamento in affitto, è stato costretto a scappare dalla nostra casa con tutto il materiale audio-visivo in nostro possesso, per evitare un irruzione della polizia.

Durante i numerosi interrogatori che ho subito, l’attenzione è stata concentrata tutta su miei presunti colleghi o “complici”, come le forze di sicurezza tengono a precisare. Inutile dire che non ho dato alcuna informazione a riguardo e mi sono rifiutato di fornire nomi e posizioni.

La mia salvezza è stata l’efficienza e la bravura della console italiana al Cairo, Cecilia Bonilla Taviani, che avvertita immediatamente della mia situazione, non ha perso un secondo per lavorare alla mia liberazione, evitando il clamore e mantenendo un profilo basso che si è rilevato davvero molto efficace. Il suo è un lavoro difficile quanto importante, ed è grazie a lei che molti concittadini italiani hanno evitato il peggio in situazioni simili alla mia.