Entra nel vivo la 51° edizione di Bergamo Jazz (21-24 marzo) diretta dal trombettista Dave Douglas che tra giovedì e domenica vede in scena, dal tardo pomeriggio a notte fonda, ben 23 grandi nomi del panorama internazionale, con una media di cinque concerti a serata. Benché orientato complessivamente sulla modernità cosmopolita, con una nutrita presenza di solisti e gruppi sia italiani sia europei, la kermesse presenta quale filo conduttore una linea artistica black nella scelta di solisti sia africani (Manu Dibango, Dobet Gnahoré) sia afroamericani (Archgie Shepp, Terence Blanchard, David Murray).

È PROPRIO quest’ultimo, ‘storico’ sax tenore in ambito poist-free, a esibirsi il 23 al Creberg Teatro con una formazione inedita per l’audience italiana, formata da David Bryant, al pianoforte, Dezron Douglas al contrabbasso e il batterista Eric McPherson. L’artista newyorkese ama molto il nostro paese: «Qui ho potuto registrare molti album dal vivo e negli anni ottanta avevo persino un ottetto italiano. Murray, classe 1955, è il geniale continuatore di un jazz di ricerca (catalogata spesso come free) e ama dicutere di problemi legati alla ricezione del jazz in Europa e in America: «Molte persone sono ancora ossessionate dall’espressione free jazz. Alcuni pensano che significhi la musica sia libera dalla struttura, dai vincoli, dalle progressioni di accordi, dalla melodia e dal metro. Come se non dovesse esserci alcun processo di pensiero coinvolto».

E PROSEGUE: «Contrariamente a tutto ciò, credo fermamente che occorra il più alto livello di riflessione per creare il free jazz in una composizione spontanea. Per rendere improvvisata una conversazione ‘intellettuale’ fra alcuni musicisti bisogna naturalmente studiare bene oltre ad avere la fiducia e la capacità di realizzare l’autentico free jazz che in tal modo resta un’esperienza straordinaria. La melodia è ciò che tutti cercano in mare di cacofonia improvvisativa, e questo può condurre alla libertà». Tutto questo spiega in effetti la passività di certo jazz contemporaneo, talvolta pigro nell’andare oltre il già visto e già udito: «I giovani musicisti oggi – precisa Murray – devono prestare un po ’più di attenzione al processo creativo jazzista. Imparare anche a suonare bebop è un must per un giovane jazzman, ma nessuno è interessato a sentire un giovane esibirsi nel bebop, perché in fondo è già stato fatto meglio dai boppers originali. I ragazzi insomma hanno bisogno di scrivere la propria musica e approfondire se stessi per trovare qualcosa di veramente personale da portare nella scena jazz attuale». Avvicinarsi al jazz dovrebbe essere per tutti quindi un’esperienza liberatorio e in fondo anche ‘politica’: «Ascoltare il jazz significa pure che le persone liberano le loro menti dallo stress generale della vita. Alcuni trovano altre musiche o diverse forme d’arte che li aiutano a ridurre i loro problemi quotidiani. Come musicista, dico che la libertà è qualcosa che è diventata la mia zona di comfort».