La biografia dei filosofi illustri è un genere letterario dalle radici antiche, che nell’ultimo mezzo secolo ha ritrovato forza e popolarità, probabilmente perché in molti casi – per esempio quelli di Benjamin, Wittgenstein, Arendt – la vita dei singoli si è intrecciata a tal punto ai grandi drammi della storia, da conferire alle loro biografie veri e propri tratti romanzeschi, capaci di attrarre un pubblico molto più vasto di quello disposto, in genere, a impegnarsi nella lettura di opere filosofiche.

Le premesse non sembrano altrettanto brillanti nel caso di biografi che si siano azzardati a muovere un passo all’indietro, per rivolgersi ai secoli «felici» della filosofia moderna, prima che autori come Marx, Nietzsche o Freud ne minassero la stabilità e le certezze. Benché infatti proprio questa epoca abbia forgiato il prototipo della vita «romanzesca», salvo rarissime eccezioni, i filosofi non sembrano esserne stati contagiati. La loro biografia, di solito, è di una monotonia desolante, del tutto priva di eventi memorabili che non siano la composizione e la pubblicazione di opere destinate ad assorbirne, a quanto pare, quasi tutta l’energia e le pulsioni vitali.

Le vite sullo sfondo
David Hume e Adam Smith sono tutt’altro che eccezioni a questa regola. Non ebbero, entrambi, moglie né figli; non si spostarono dalla Scozia se non per brevi periodi e a malincuore; non conobbero particolari rovesci di fortuna e non parteciparono alla vita politica che in modo cauto e defilato, nonostante il carattere apertamente innovativo e «rivoluzionario» delle loro idee. Hume scrive di se stesso: «quasi tutta la mia vita è stata spesa in occupazioni e progetti di natura letteraria»; e Smith, trasferitosi nel 1767 dalla madre anziana nella piccola Kirkcaldy, scrive che «la mia sola occupazione qui è lo studio, i miei svaghi sono lunghe, solitarie passeggiate in riva al mare. Mi sento comunque estremamente felice, a mio agio e appagato. Non lo sono mai stato, forse, più di così in tutta la mia vita».

Stanti queste premesse, Dennis Rasmussen ha avuto il merito e il coraggio, per primo, di scrivere un libro, Il miscredente e il professore David Hume e Adam Smith: storia di un’amicizia (traduzione di Marco Nani, pp. 334, € 30,00) sulla quasi trentennale amicizia tra i due, sforzandosi di dare a una materia così poco avventurosa quella forma scorrevole e vivace, indirizzata non solo agli accademici ma a un pubblico vasto di potenziali lettori, che già viene annunciata nelle pagine introduttive.

In casi simili, l’espediente più antico, già ampiamente utilizzato in Grecia e a Roma, è il ricorso all’aneddotica: l’insistenza su singoli episodi, capaci di far balenare il legame tra la vita e le idee, anche a costo di condire la realtà storica con le spezie dell’immaginazione letteraria. Di un simile ingrediente, Rasmussen sembra invece deciso a fare un uso molto parsimonioso, a partire dai due casi della biografia di Hume che più si presterebbero allo scopo: la parentesi «mondana» del suo soggiorno a Parigi e la disavventura della lite con Rousseau, che di tale soggiorno segnò la conclusione.

A proposito del successo mondano di Hume a Parigi, Rasmussen commenta come sembri «a dir poco straordinario che un filosofo di cinquantadue anni, alquanto sgraziato, piuttosto corpacciuto, che parlava un francese zoppicante con un accento scozzese decisamente marcato, divenisse l’uomo del momento nella raffinata società parigina». Né ci si dà troppa pena di connettere un tale entusiasmo alla motivazione più ovvia: lo straordinario potenziale innovativo delle idee di Hume, che la Parigi dei philosophes era evidentemente in grado di apprezzare molto più della Gran Bretagna tradizionalista di Edmund Burke e Samuel Johnson.

Quanto alla controversia con Rousseau, Rasmussen la riconduce interamente al contrasto tra la proverbiale «bonomia» di Hume e le manie persecutorie del ginevrino, senza cedere alla tentazione di leggervi, in controluce, un qualche confronto speculativo tra l’autore del «contratto sociale» e il più severo e penetrante critico del contrattualismo dell’epoca moderna.

A rivestire un significato filosofico, nella minuziosa cronaca biografica, non restano così che due momenti di rilievo: la morte di Hume, siglata da Smith con una lettera che, all’epoca, suscitò grande scalpore; e il fatto stesso della profonda e duratura amicizia tra i due autori, cui entrambi riconobbero esplicitamente un valore esistenziale decisivo.

Hume era pubblicamente noto come un «miscredente», scettico su ogni genere di fede religiosa, in aperta sfida al dogmatismo bigotto che era, all’epoca, imperante in Gran Bretagna. Le tensioni polemiche, che a suo tempo erano già costate a Hume l’interdizione dall’insegnamento pubblico, si acuirono nella fase terminale della sua malattia perché, anziché emendarsi, il filosofo esibì un’imperturbabile serenità di fronte alla morte imminente, senza concedere nulla alla tardiva devozione tipica dei moribondi.

Ben consapevole, anzi, dello scandalo che poteva suscitare agli occhi dei credenti più dogmatici una tale mancanza di «timor di Dio», Hume ne accentuò i lineamenti nel breve scritto su La mia vita, composto come una specie di auto-necrologio poche settimane prima della morte. Subito dopo, abbandonando per una volta la sua caratteriale prudenza, Smith decise di affiancarsi all’amico in questa estrema sfida ai benpensanti. Volle perciò rendere pubblica una sua lettera all’editore William Strahan, in cui gli ultimi giorni di Hume venivano descritti con toni volutamente leggeri, e nello stesso tempo quasi eroici, fino a definirlo «uomo perfettamente saggio e virtuoso, quanto forse l’imperfetta natura umana lo permetta».

Rasmussen sottolinea a buon diritto come la formula ricalchi quasi alla lettera quella riferita, nel Critone, al Socrate morente. La morte di Hume veniva così a vestire i panni di un dramma esemplare, che fin dall’Atene antica vede schierati da un lato il coraggio filosofico di chi guarda la verità a viso aperto, e dall’altro la viltà superstiziosa di chi è pronto a piegarsi ai poteri terreni o divini, solo per implorarne una protezione illusoria, umiliante e inutile. Un gesto di estrema amicizia, insomma, che Smith era ben consapevole di dover pagare, negli anni successivi, con l’ostracismo e l’ostilità dei circoli accademici conservatori.

Una rete orizzontale
Veniamo così all’unico aspetto biografico dotato veramente di un significato filosofico, che del resto è anche quello che Rasmussen pone al centro della sua ricostruzione: l’amicizia come forma esemplare del rapporto tra esseri umani, cui tanto Hume quanto Smith tributarono un valore decisivo nella vita privata non meno che nelle opere destinate alla pubblicazione. Per coglierne l’importanza, occorre collegare questo investimento nella amicizia al progetto speculativo più radicale dell’Illuminismo scozzese. Non diversamente dai philosophes parigini, anche Hume, Smith o Ferguson intendevano infatti minare alle fondamenta la legittimità dei rapporti «verticali» di potere.

La strategia però, nel loro caso, non si risolveva nel lanciare un assalto frontale in nome di presunti principi universali. Piuttosto, intendevano mostrare dall’interno, per via analitica, fino a che punto potere e ricchezza dipendessero, in realtà, da una rete sottile e spontanea di rapporti «orizzontali», tramati dai singoli esseri umani, nel loro sforzo costante di avvicinarsi alla felicità.

In altri termini, al potere sovrano non andava contrapposto un qualche «contratto originario» non meno mitologico e, perciò, non meno minaccioso, ma il continuo convergere e contagiarsi tra loro di opinioni, credenze e scelte collettive, capaci di agire silenziosamente nella dinamica concreta della vita civile.

Come sappiamo, nei secoli successivi il progetto è stato ampiamente sfruttato dalla teoria economica e politica di stampo liberale, che non ha mai cessato di appellarsi all’idea di un «ordine spontaneo» di cui tanto il «governo dell’opinione» di Hume quanto la «mano invisibile» di Smith figurerebbero precursori. Una filiazione non del tutto illegittima, naturalmente, ma che ha potuto imporsi solo a condizione di identificare qualunque rete «orizzontale» con i meccanismi ciechi e impersonali del mercato o con quelli aggressivi e manipolatori del controllo dell’opinione pubblica.

Il risultato è la società «neoliberale» in cui viviamo tuttora: una società di estranei, in cui gli automatismi istituzionali tendono a assorbire ogni forma di legame sociale, facendo dell’incremento della propria fetta individuale di denaro o di potere l’unica finalità riconosciuta e, quindi, «l’unico gioco in città». Una società senza soci, insomma, senza amici.

Un esito così infausto è chiaramente agli antipodi della prospettiva tracciata dagli illuministi scozzesi, nei quali l’interazione sociale che sta alla base della società civile non perde mai di vista la vitalità del desiderio e il calore della solidarietà morale. Il fatto è che, nel corso del tempo, l’indagine avviata da Hume e da Smith è stata mutilata del suo pungiglione speculativo: quello capace di mostrare che le forme autentiche di legame sociale devono necessariamente precedere l’identità individuale, per poterne guidare la maturazione e la crescita. L’amicizia come rapporto con un «altro se stesso», irriducibile per definizione alla contrattualità, offre il paradigma classico di una simile dialettica profonda tra sé e gli altri. Solo specchiandoci nell’altro possiamo essere noi stessi, e solo lasciando campo libero a un simile gioco di rispecchiamenti la società può davvero essere «civile».

Il carteggio tra Hume e Smith sulla vera natura della «simpatia», subito dopo la pubblicazione della Teoria dei sentimenti morali, non lascia dubbi su quanto entrambi considerassero centrale questo aspetto nella loro indagine parallela sui fondamenti della socialità umana. E quanto, almeno Smith, fosse consapevole della delicatezza del tema, e dei rischi cui andava incontro la «società commerciale» che stava prendendo forma in quegli anni, lo mostrano i molti passi della Ricchezza delle nazioni apertamente critici sulla cecità, la grettezza e l’irrazionalità di un’esistenza guidata solo dall’imperativo del guadagno monetario.

Comprensibilmente, di questi temi più profondi e più spinosi il libro di Rasmussen non dà notizia se non in modo parziale e indiretto. Ci aiuta però a immaginare fino a che punto anche la vita dei suoi due protagonisti dovesse portarne il segno, tanto da disegnare una perpetua oscillazione tra la ricerca di una solitudine operosa e il desiderio di una condivisione profonda, come è quella tradizionalmente legata all’amicizia filosofica.