David Graeber è morto qualche mese fa a Venezia, a soli 59 anni. Era senza dubbio una delle voci più originali del pensiero critico contemporaneo, capace di problematizzare i nodi scoperti del presente smarcandosi dalle formule stereotipate del pensiero «radical». Nello scenario della crisi del 2007, il suo volume sul debito, unitamente all’attiva partecipazione a Occupy!, lo aveva proiettato a una notorietà globale. In seguito, la sua produzione, divisa fra interventi militanti e ricerche di più ampio respiro, ha toccato temi quali il ripensamento della partecipazione politica, la burocrazia come chiave delle forme di potere contemporanee, la degradazione del lavoro nell’era dei bullshit jobs.

DAVID GRAEBER ERA un antropologo. Tale formazione marcava il suo approccio al presente, a partire dalle potenzialità dell’antropologia, quando si sottrae alle banalità delle vuote generalizzazioni (l’altro, il diverso ecc.), di gettare uno sguardo estraniato sul ciò che appare scontato e di sfidare i presupposti assunti acriticamente da altri saperi. E al Graeber antropologo ci rimanda L’utopia pirata di Libertalia, uscito nel 2019 e proposto ora da Elèuthera (pp. 214, euro 17, traduzione di Elena Cantoni, prefazione di Franco La Cecla), la casa editrice che per prima lo ha fatto conoscere al pubblico italiano.

FACENDO RICERCA sul campo in Madagascar, infatti, Graeber si imbatte nelle tracce lasciate dalla presenza dei pirati. Fra il Diciassettesimo e il Diciottesimo secolo, su quelle coste avevano stabilito le loro basi diverse bande che dai Caraibi si erano spostate nell’Oceano indiano per depredare il naviglio carico di merci preziose che incrociava in quelle acque, entrando in un complesso gioco a geometria variabile con le popolazioni locali, i mercanti di schiavi, i tentativi, ancora intermittenti, delle potenze coloniali di assumere il controllo dell’isola.

DA QUESTO PUNTO DI VISTA, quei luoghi hanno assunto e svolto un ruolo fondamentale nell’epopea dei ribelli del mare, specie per quanto riguarda i tentativi di trasferire su terraferma le forme di organizzazione, egualitarie e democratiche, che caratterizzavano la loro vita in mare (elezione del capitano, che esercitava l’autorità sotto il controllo dell’assemblea, spartizione paritetica del bottino).

È NELLA PARTE SETTENTRIONALE del Madagascar che sarebbe sorta Libertalia, un esperimento di governo egualitario e assembleare guidato prima da Henry Avery e poi dal capitano Misson, la cui eco si sarebbe diffusa in tutta Europa; un esperimento a cui avrebbe posto fine un’incursione delle popolazioni locali. Sono vicende collocate sul crinale fra mito e realtà. Le informazioni di cui disponiamo, in proposito, derivano prevalentemente da una letteratura a vocazione popolare assai incline al sensazionalismo o a farsi amplificatrice di chiacchiere da taverna. Si tratta di un repertorio con cui Graeber ingaggia un serrato corpo a corpo, a partire da una prospettiva storica antropologicamente informata, al fine di fare emergere, al di là delle affabulazioni, le caratteristiche e gli effetti della presenza dei pirati sull’isola.

In particolare, l’attenzione cade sulle loro relazioni con le popolazioni malgasce, un attore solitamente relegato al ruolo di semplice comparsa nelle «storie di pirati». La propensione a contrarre matrimoni con le donne del luogo, oltre alla massiccia disponibilità di beni suntuari, permette ai ribelli del mare di sviluppare relazioni stabili con le società locali. L’astensione dalla tratta, in tal senso, costituisce un’opzione per eliminare possibili fonti di conflitto. Lo spirito assembleare della filibusta si incontra con le tradizioni deliberative dei gruppi locali, e lo stesso avviene con i riti collettivi, generando forme ibride e nuovi assemblaggi istituzionali. Per le donne, la relazione con i pirati costituisce un’opportunità di emancipazione dai rapporti di subordinazione locali e di sviluppo di autonome iniziative commerciali.

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IL TITOLO ORIGINALE del volume è Pirate Enlightenment, illuminismo pirata. La scelta di modificarlo per l’edizione italiana potrebbe risultare fuorviante. Infatti, al centro del libro non sono tanto le utopie, ossia progetti di riforma elaborati in abstracto o riferiti a un altrove indeterminato, quanto, all’opposto, intrecci assolutamente topici, localizzati nello spazio e nel tempo. Come nel caso delle vicende di Ratsimilaho, o Tom, figlio di un pirata e di una donna malgascia che utilizzando le dotazioni di armi del padre e le relazioni della madre costituisce la Confederazione betsimisaraka. Dopo varie guerre, la confederazione si garantirà il controllo della costa nordorientale del Madagascar dando vita a una strana monarchia illuminata all’interno della quale i discendenti dalle unioni delle donne malgasce e dei pirati si costituiranno come un sorta di specifica casta, gli zana-malata, che ancora oggi si identifica come tale, rivendicando la propria discendenza da filibustieri e bucanieri.

Se, come attestato dalle ricerche di Linebaugh e Rediker, le navi sono state il laboratorio di formazione della manodopera salariata predisponendo scenari destinati a realizzarsi nel lavoro di fabbrica, i pirati ne hanno rappresentano una sorta di doppio inquietante che ne ribaltava le logiche in termini effimeri, opponendo l’eguaglianza alla gerarchia, lo sperpero al sacrificio, l’eccesso alla disciplina. In ciò risiede presumibilmente il fascino che l’immaginario a loro legato ha esercitato e continua a esercitare, riformulandosi sui registri più diversi, lungo uno spettro che va dalla saga disneyana di Jack Sparrow alla trilogia dei pirati di Valerio Evangelisti o La vera storia del pirata Long John Silver di Björn Larsson. L’utopia pirata di Libertalia, da parte sua, non si sofferma particolarmente sulla dimensione mitopoietica della filibusta.

DIVERSAMENTE, il libro può essere collocato come un supplemento alle ricerche di Graeber sul Madagascar, in cui i pirati costituiscono un ulteriore caso di «stranieri interni», strutturati come gruppo endogamo dotato di specifiche funzioni che, in una logica di lungo periodo, ha costituito un fattore di dinamizzazione delle culture e delle società dell’isola. Ma è interno anche a un altro progetto, a cui allude il titolo originale del libro, che purtroppo non sarà portato a termine. A parere di Graeber, infatti, anziché limitarsi a una sterile stigmatizzazione dell’illuminismo riducendolo a una manifestazione della ragione imperialista, risulterebbe più opportuno procedere a una sua sprovincializzazione, sottraendolo alla consolidata narrazione eurocentrica. Ciò significa valorizzare la dimensione plurale che caratterizza, sulla soglia della modernità, l’intensificarsi di discussioni sull’autorità, la libertà, le credenze, le forme di organizzazione della società. Non è solo nei salon delle capitali europee che si conversa su quei temi. A confrontare ipotesi ed esperienze è stata una platea assai ampia di attori, collocati alle più diverse latitudini, a partire dalle occasioni di incontro e interazione offerte dalla prima grande fase di globalizzazione.

L’illuminismo pirata del titolo rimanda al contributo offerto dai ribelli del mare, a partire dalla loro condizione particolare, a quelle stesse discussioni, coinvolgendo attivamente interlocutori e prospettive che possono apparire assai esotici e improbabili a uno sguardo etnocentrico, nonché all’influenza che le narrazioni, vere e false che siano, sulle loro avventure e forme di organizzazione possono avere avuto sulla nascente opinione pubblica europea e sulle elaborazioni teoriche dell’illuminismo.