Nel 2011, ad Arles, una chiatta gallo-romana di 31 metri di lunghezza – rinvenuta quasi intatta, 7 anni prima, nelle agitate e torbide acque del Rodano – viene portata a terra con una poderosa operazione di salvataggio. L’imbarcazione mercantile naufragò probabilmente tra il 66 e il 70 d.C., a causa di una piena, mentre discendeva il fiume. Quando gli archeologi l’hanno individuata giaceva, con un carico composto da blocchi di pietra calcarea e il corredo di bordo – piatti, un fondo di dolium (grande contenitore di forma sferica per il trasporto o la conservazione di liquidi e cereali, ndr) reimpiegato come braciere e utensili vari – sotto al limo.
Il relitto Arles-Rhône 3 era ricoperto da innumerevoli rifiuti, gettati nel fiume durante la fervida vita del porto, almeno fino al 140 d.C.

Tra i materiali recuperati in seguito allo scavo subacqueo si contano 816 lucerne, 428 monete, 366 oggetti in osso, 4619 frammenti di vetro e poi ancora legni, marmi colorati, metalli e intonaci dipinti in quantità ugualmente impressionanti. Dal deposito sedimentario sono state estratte, inoltre, 3000 anfore (di cui 235 integre) e decine di migliaia di ceramiche, le quali recano iscrizioni graffite o dipinte e conservano tracce di alimenti. Proprio a quest’ultima tipologia di reperti è dedicato il libro Enquêtes archéologiques. L’affaire Valerius Proculus (Errance – Actes Sud, pp. 174, illustrazioni di Mourad El Amouri) di David Djaoui, archeologo del Museo dipartimentale di Arles antica. Istituzione che ha accolto, dopo il restauro, il relitto Arles-Rhône 3. Come si deduce dal titolo, l’autore racconta una serie di inchieste condotte tra le riserve del museo e alcune biblioteche specializzate. D’altronde – afferma nell’introduzione del volume lo studioso di Protostoria Jean-Paul Demoule –, il mestiere dell’archeologo somiglia a quello dell’ispettore di polizia. Presunti misteri vengono risolti, da entrambi, con un certosino lavoro di raccolta degli indizi. Djaoui mette il lettore a proprio agio, con uno stile vivace e colloquiale, che – senza perdere di vista il rigore scientifico – non disdegna l’(auto)ironia. Lo abbiamo incontrato a Marsiglia.

La scena del «crimine» è il relitto Arles-Rhône 3, con il suo deposito di ceramiche. Il «giallo» ripercorre le tappe del complesso lavoro di studio e interpretazione dei contesti archeologici, tra ipotesi che falliscono, confronti con esperti di varie discipline e intuizioni galvanizzanti. Finalmente, l’archeologia senza filtri.
L’idea è nata dalle conferenze in cui presentavo gli scavi subacquei nel Rodano. In un’occasione, ho voluto illustrare il processo di ricostruzione teorica di un contesto antico. Il pubblico dei non addetti ai lavori era confuso. Successivamente, mi sono impegnato per approfondire ogni passaggio e le differenti metodologie applicate, e ha funzionato! Spiegare in un libro, che però non è un manuale, come ragiona un archeologo giorno per giorno, integrando nel testo gli scambi con colleghi e specialisti di diversi ambiti, mi ha permesso di cimentarmi con un argomento «vivo».

Lei evidenzia come il contesto sia fondamentale per attribuire a ciascun reperto il suo significato d’uso. Ne sono testimonianza delle ceramiche classificate come anforette per il commercio del garum (salsa di pesce, ndr), provenienti dal Lazio. Gli esemplari ritrovati nel Rodano contenevano però sardine, sgombri e persino olive. Ne ha dedotto si trattasse di conserve di bordo, delle scatolette ante litteram.
I macro-resti alimentari fungono da passerella con il presente. Nel caso delle conserve o delle salse di pesce quali il celebre garum, si possono analizzare le specie animali e riprodurre le ricette. Con l’aiuto dell’ittiologo Gaël Piquès, sono riuscito a simulare anche il taglio effettuato sui pesci. L’archeologia sperimentale ha un potenziale enorme per «visualizzare» ciò che le fonti letterarie tramandano.

Ha decifrato alcune iscrizioni latine – i cosiddetti «tituli picti» – apparentemente enigmatiche, dipinte sulla superficie esterna delle anfore. Ciò, assieme al rinvenimento di una singolare pipetta di terracotta, le ha permesso di sostenere che nel I secolo d.C. esistevano già i commercianti di vino all’ingrosso, come Valerius Proculus.
Anche il tema del commercio del vino avvicina incredibilmente la nostra epoca al passato. Basta osservare da una parte le odierne bottiglie, dall’altra le anfore, per comprendere che la forma ha sempre identificato la regione di provenienza. A volte, per fare scoperte sorprendenti, è sufficiente porsi domande a cui altri non avevano pensato.

Dichiara di essere contro la definizione di «tesoro archeologico» e di disapprovare le esposizioni che mettono in risalto l’oro di Tutankhamon o i marmi del Rodano. Il suo è anche un libro contro il sensazionalismo.
Proprio così. A spingermi alla scrittura del volume sono stati anche quei reportage televisivi che diffondono una falsa rappresentazione dell’archeologia. Basandosi su rinvenimenti eclatanti, essi perpetuano l’immagine del «cercatore di tesori». Io, invece, ho voluto dimostrare come dagli oggetti comuni possano essere tratte informazioni straordinarie, e quanto lo stesso processo di interpretazione e restituzione del passato sia appassionante. I media dovrebbero interessarsi di più a come opera l’archeologo e non concentrarsi unicamente sull’emozione e la spettacolarizzazione delle scoperte.