David Chase mi dà appuntamento nell’Upper East Side, dove abita, in un locale elegante senza insegna, con tovaglie di fiandra e burrata di Long Island. Con sette Emmy al suo attivo è considerato uno degli show runners (scrittori/produttori di serie tv) più importanti della storia dei media americani: senza dubbio la moda/passione per le serie televisive che coinvolge ormai anche cinefili di ogni estrazione si deve ai suoi Soprano. Chase (David Henry De Cesare) arriva con la moglie Denise, una signora minuta come lui. Gli domando se lui guarda le serie tv e risponde che le sue preferite sono Boardwalk Empire e Mad Men – non a caso scritte da suoi ex collaboratori Terence Winter e Matthew Weiner. Gli mostro poi una nuova pubblicazione sui Sopranos appena uscita in Canada, con una bibliografia di due pagine sulla serie, inclusi ben 15 libri – in assoluto la fiction più studiata nelle università americane, nonostante l’ultimo episodio sia andato in onda nel 2007. Gli chiedo quindi se era consapevole allora dell’innovatività del testo. «Certo. Anzi i miei collaboratori, lo stesso Gandolfini e io, quando abbiamo finito il pilot, eravamo convinti che non l’avrebbe voluta nessuno. Ma ero davvero stufo di tanti anni passati a scrivere film o progetti che non si realizzavano o a macinare episodio dopo episodio di Northern Exposure o Rockford Files

Durante l’intervista veneziana per il nostro giornale, Chase era rimasto colpito da alcune microstorie sull’emigrazione italiana negli Usa e sui performers immigrati che gli avevo raccontato per guadagnarmi la sua fiducia e a tratti trasforma questa conversazione in un’intervista a me, in modo che racconti alla moglie le cose che ho detto a lui. L’aveva colpito in particolare l’aneddoto su Core ‘ngrato, che lui ha usato con un’intuizione magistrale per concludere la terza serie, quando la canzone, interpretata dallo zio, accompagna l’immagine di ognuno dei personaggi, riverberando l’eco della loro ingratitudine e dei loro tradimenti. Ma Chase non sapeva che quella canzone era stata scritta per Enrico Caruso da Alessandro Sisca, a New York, quando la compagna del famoso tenore, gelosa dei suoi successi e delle sue scappatelle, l’aveva tradito e lasciato per fuggire con l’autista, umiliandolo pubblicamente.

Diamo per scontata la forte componente autobiografica nella costruzione dei personaggi della serie, ovvero i riferimenti alla sua famiglia italoamericana working class del New Jersey, e sorvoliamo sui suoi difficili genitori, in particolare sulla mamma, che notoriamente ha ispirato la figura di Livia nei Sopranos, essendo, come lei fonte di una depressione quasi incurabile per il figlio. Mi racconta invece, con affetto e massimo rispetto, del nonno socialista originario di Avellino che amava l’opera e leggeva sempre il giornale, anche più di uno al giorno, per farsi un’opinione personale. Libri e cultura erano importanti per questa famiglia immigrata, pur se di condizioni molto umili, ma la lingua restava un problema, tra dialetto, italiano stentato e inglese mai assimilato. «Una volta che avevano ospiti, la figlia più grande che aveva frequentato l’high school si era messa a parlare in un italiano sgangherato e il nonno le ha detto ‘Mamma mia, se ti sentisse il re!’ al che risentita lei gli aveva risposto: ‘E se la regina di Inghilterra sentisse te?’».

Gli domando se Napoli gli è piaciuta, perché l’episodio dei Soprano (la prima serie americana girata on location, a partire dall’ambientazione nel New Jersey) mi era parso ambiguo, come se l’esperienza di Tony e i suoi uomini nel paese d’origine fosse deludente. Chase risponde invece che la città gli piace molto, solo che è rimasto sconcertato dal comportamento della gente quando loro cercavano di spiegare che erano di origini italiane, e la reazione invece era di sussiego o distacco. «Noi in Italia non studiamo la storia dell’emigrazione – gli spiego – non conosciamo la letteratura o la produzione artistica degli italiani all’estero, perché la nostra emigrazione è rimasta una vergogna, sintomo di uno stato inefficiente e ingeneroso.»

E siccome vedo che vorrebbe capire l’Italia di oggi, gli racconto che mentre si sbraita tanto sull’immigrazione – in realtà un fenomeno che va riducendosi, vista la crisi e l’inclinazione dei migranti ad andare nel Nord Europa e comunque a non fermarsi in Italia – il vero problema è la disoccupazione giovanile e il conseguente flusso migratorio, che assomiglia sempre di più nelle cifre alla Grande Emigrazione, ora che la meglio gioventù, o semplicemente le menti più efficienti e creative se ne vanno altrove, in Europa come in Australia. Rimane sconcertato e ci rendiamo conto di come l’Italianità che dovremmo avere in comune sia una proiezione immaginaria – gli italoamericani per noi restano dei cugini distanti che parlano di gente e tradizioni che noi abbiamo dimenticato, e loro stentano a capire l’Italia di oggi. Chase invece è informatissimo sulla politica italiana e la storia ufficiale del paese.

Parliamo quindi dei suoi progetti, che riguardano le sue passioni, musica e cinema – ovvero la sua formazione personale. Da ragazzino Chase era batterista e infatti ha dedicato il suo debutto alla regia cinematografica (Not Fade Away, 2012, prodotto da Steven Van Zandt) alla storia di una rock band negli anni Sessanta. È un bel film, svelto e fresco, che racconta di un ragazzo italoamericano, con un padre razzista e gretto ma in fondo non cattivo (Gandolfini) e degli amici alternativi, i quali, visti i Rolling Stones in tv, formano una band, scartando però il doo-wop dei compatrioti Four Seasons per una musica più dura e protestataria. Discutono tra loro anche di arte e cultura, con un linguaggio verosimile per dei ragazzi al college negli anni Sessanta, dotati di quella crudeltà giovanile che non risparmia i «migliori amici» o le ragazze. Inspiegabile lo scarso successo arriso alla pellicola, autobiografica ma niente affatto sentimentale.

Chase rimanda da tempo il prequel dei Sopranos che, morto Gandolfini, non può che andare indietro nel tempo e trattare di Livia, del padre di Tony e di Uncle Junior, per raccontare il momento in cui a Newark esplodono le tensioni razziali e comincia la diffusione massiccia della droga. Di nuovo rock e tensioni razziali nel New Jersey dei primi anni Settanta quindi, ma per evitare il rischio di rifare Not Fade Away, sta elaborando altri punti di vista. Prende subito nota di un documentario che gli suggerisco di recuperare – Revolution 67, che trattava proprio dei Newark riots e li collegava alle speculazioni immobiliari che hanno prodotto la gentrificazione delle zone un tempo nere. Parliamo anche di doo-wop, una musica praticata per lo più da italoamericani e afroamericani, negli anni in cui il razzismo divideva i due gruppi, in passato molto più solidali di quel che noi sappiamo, con il falsetto di Frankie Valli e dei Drifters, in singolare contrasto con il machismo che contraddistingue entrambe le comunità.

L’altro progetto, Ribbon of dreams – una mini serie per HBO- riguarda l’altra passione salvifica di Chase– il cinema, studiato a NYU e Stanford. La serie sarebbe ambientata nel cinema muto, con una coppia di personaggi (un ingegnere che ha frequentato il college e un cowboy) che diventano assistenti di Griffith, Walsh e Ford. Ha in progetto inoltre un film con la Paramount su una vicenda legata alla guerra in Afganistan, ostacolato per ora dei cambiamenti improvvisi dell’industria mediatica americana, come tutte sul crinale di una crisi senza precedenti, con una drammatica emorragia di pubblico e un futuro digitale e multipiattaforma che si sta dimostrando molto meno governabile del previsto.