La città si chiamerebbe Mahashima, e i due personaggi principali Ryosho e Shakudo. Eppure il narratore di Il passo della mezza luna (versione italiana curata da Maurizia Balmelli alla guida di un gruppo di giovani traduttori, Sara Artaria, Sara Cericola, Chiara Licata, Davide Locati e Chiara Vannini, L’orma, pp. 181, € 16,00) lascia che si insinui tra le pagine un dubbio che via via si fa certezza: il luogo di cui si narra deve essere incastonato da qualche parte tra i calanchi della costa marsigliese, e non è una provincia del Giappone feudale se non nella maschera di una poco velata ucronìa, sotto la quale si intravede bene la Francia, il paese natale di David Bosc, scrittore di Carcassonne giunto qui al suo quinto romanzo, e noto soprattutto per il suo terzo, La chiara fontana, frammento romanzesco della biografia di Gustave Courbet già edito dall’Orma nel 2017 dopo la fortunata edizione francese di Verdier (2013). Bosc conferma la sua vocazione alla brevità con una scrittura libera da automatismi «romanzeschi» nella quale il dialogo e l’azione cedono il passo a uno spazio di narrazione ibrido, fatto di descrizioni, scene sfuggenti inquadrate da lontano, e attraversato da un tono riflessivo. È una prosa che invita alla lettura lenta, e che si risolve in capitoli brevi e passaggi aforistici, in mezzo ai quali lo spazio bianco delle interruzioni è non meno rilevante del testo.

A Mahashima c’è stata una rivoluzione, uno sconvolgimento sociale doloroso che ha portato infine a una società utopistica, solidale, nella quale «il cinismo non attecchisce più» e quasi non circola il denaro. Shakudo e Ryosho (che narra in prima persona) rilegano libri per bambini, e tutto intorno una specie di città incantata li chiama a una vita collettiva non meno piena e coinvolgente di quella che conducono in coppia. Lo scambio di identità tra una ideale polis pseudo-giapponese e la Provenza innominata ma ancora riconoscibile si traduce in una contaminazione tanto delle atmosfere evocate quanto della scrittura: Il passo della mezza luna è intessuto di echi dalla poesia e dalla cultura giapponese, e avanza intrecciando brani di prosa che per stessa ammissione dell’autore sono «montati» pensando al linguaggio cinematografico di Akira Kurosawa, maestro del montaggio cinematografico.

Il narratore compie un viaggio fuori da Mahashima che assomiglia a un viaggio fuori dal tempo: i personaggi del libro sono sì reduci da un’epoca difficile, ma vivono adesso come sospesi, si direbbe che il loro sia stato un movimento per liberarsi della Storia tout court, in questo aspirando a una sorta di età della impermanenza che riecheggia il pensiero buddista. Lo sguardo dell’intellettuale d’Occidente che, da secoli, guarda alla filosofia orientale come a un rifugio idealizzato, non appartiene tuttavia alla poetica del Passo della mezza luna: nel ritrovare la pace e il senso di appartenenza a una comunità che possa essere declinato senza violenti spiriti identitari, volontà di potenza, e paura dell’altro, gli abitanti di Mahashima si congedano da qualunque riferimento storico e culturale, e si rinchiudono in una pax squisitamente letteraria.

Per Bosc, e per il lettore con lui, non è così importante se si tratti di una rivoluzione guidata da uno «spirito giapponese» o «buddista»: il suo racconto ha una valenza puramente immaginale, e, letto alla luce delle odierne cronache dal mondo, apertamente provocatorio. Lo chiarisce lo stesso Ryosho quando dice addio alla violenza del tempo che fu, e benedice la nuova era: «Fino a non molto tempo fa, chi scriveva racconti tendeva a immaginare il mondo a venire come un ammasso di rovine, un mucchio di rifiuti e detriti». Ora, da Mahashima in poi, non più.