Scriveva lo psicologo e filosofo William James centodieci anni anni fa, dieci prima che venisse al mondo la figura cardine della scena musicale jazzistica di cui tratteremo: «La maggior parte delle persone crede di pensare, mentre in realtà organizza semplicemente i propri pregiudizi». Interpretazione ficcante e immediatamente condivisibile, naturalmente, a patto che i pregiudizi non siano i nostri. Pendete ad esempio la storia del jazz, quel «calderone delle streghe» cui accennò con feroce sarcasmo Miles Davis nel ’69 celandone il nome dietro un assai più prosaico Bitches Brew: a ripercorrerla, anche con una coscienza politica e sociale, c’è il rischio di accreditare sempre i soliti quattro pregiudizi. Perché la storia del jazz e dei suoi protagonisti è fatta di persone vere, non di schemi, e se il discorso vale quando c’è da prendersela con qualche reazionario incallito che vive di supposte età dell’oro, di «tradizioni jazz» che tali non sono, ma atti di volontà e di invenzione, dovrebbe valere anche quando, a rovescio, si tratta di musicisti identificati come modesti (o comunque non decisivi) epigoni del suono afroamericano, confondendo colore della pelle, idee politiche, pratiche immaginate e di vita reale.

LUOGHI COMUNI
Dave Brubeck, nato esattamente cent’anni fa a Concord, California, il 6 dicembre 1920, è una figura che ha cristallizzato sulla propria immagine una concrezione progressiva di luoghi comuni tanto facili da usare quanto irrilevanti, invece, sotto il profilo storico-musicologico, e perfino della storia sociale dell’impegno. Un pregiudizio che ha le gambe corte come tutti i pregiudizi, ma che ha fatto molta strada, un passetto dopo l’altro, nella vulgata del jazz. Dave Brubeck oggi non può più difendersi da una serie di accuse e luoghi comuni. Perciò diventa rilevante e istruttivo, perfino, ripercorrere alcuni tratti della sua comunque lunga e variegata vicenda biografica, artistica e storica, a caccia di «anelli che non tengono», nella vulgata del jazzista «bianco, borghese, adatto ai cocktail bar, disimpegnato». Ne vengono fuori delle belle. Come ne verrebbero fuori, sia chiaro, indagando davvero chi siano stati Fats Waller o Benny Goodman. Apparenti «musicisti del disimpegno».
Però il caso Brubeck ci offre messe di spunti e almeno un disco capitale (ancorato a un progetto di «musical contro la segregazione») e pressoché dimenticato, oggi, per comprendere quanto davvero, a volte, crediamo di pensare, e invece organizziamo pregiudizi, per non saperci attrezzare a conoscere la storia vera. Che è scandaglio attento per verificare «come andarono le cose», per ricordare stavolta un’espressione del grande Mark Twain. Brubeck aveva fondato il suo quartetto nel 1951, trovando una «spalla» ideale in Paul Desmond, contraltista dal suono lunare, stagliato e astrattamente bluesy, perfetto contrappeso ai suoi assolo al piano che nascevano leggeri e danzanti, e diventano tempestosi ammassi di block chord, spunti dissonanti, note ribattute, sovrapposizioni di minore e maggiore, dunque politonalità, come aveva imparato a usare andando a scuola dal compositore classico Darius Milhaud.

AL COLLEGE
Nel ’51 la moglie di Brubeck, Iola Whitlock, s’era inventata una geniale strategia pubblicitaria: il «Jazz che se ne va nei College», decine di concerti tra gli studenti per avvicinare un nuovo pubblico. Un successo con numeri da popstar, e un disco dal vivo (Jazz Goes to the College, appunto: una novità assoluta allora) che ne consacrò la fama divisa, in quel momento storico, praticamente alla pari con Gerry Muligan e il neonato Modern jazz Quartet. L’8 novembre 1954 Dave Brubeck, con la sua faccia da impiegato occhialuta e rassicurante, è sulla copertina di Time. Una storia di successo levigato già scritta? Tutt’altro. Nel 1959 Dave Brubeck fece uscire il disco che lo mise nell’olimpo jazzistico di coloro che, tutti assieme, rivoluzionarono il jazz, The Year that Changed Jazz (come si intitolò il celebre documentario di Paul Bernais): Ornette Coleman, Charles Mingus, Miles Davis, John Coltrane. E Brubeck appunto: che in Take Five mostrò come si poteva lavorare su tempi composti e dispari usati ben di rado nel jazz di allora, e costruendoci pure delle «hit» da classifica. Qui cominciano i problemi: il ’59 è anche l’anno in cui Brubeck inserisce al contrabbasso il chicagoano Gene Wright, classe 1923. Un nero, uno scandalo. Quando si trova a siglare un redditizio contratto per un lungo tour nel Sud degli States e scopre che tutto va bene, purché non ci sia il «negro» al basso, lui annulla tutto. Nel frattempo, nel resto del mondo, era partita l’offensiva del Dipartimento di Stato Usa, che portava in giro per il mondo i jazzisti per dar lezione di libertà e democrazia a chi viveva nel grigiore del blocco sovietico. Anche qui Brubeck è uno dei protagonisti, ma in tour in Europa non perde occasione per ribadire che forse è il caso di pesare le parole sulla libertà, se uno dei membri del suo gruppo nel suo paese non è un uomo libero perché ha la pelle di un colore più scuro. Una crepa nell’offensiva degli «ambasciatori del jazz» del Dipartimento in giro per il mondo.
Così, Ambassador Satch, si era intitolato un disco svettante di Louis Armstrong: che nel 1957, nell’apprendere che il governatore dell’Arkansas Orval Faubus aveva mandato la Guardia Nazionale a picchiare i ragazzi neri che legittimanente volevano entrare nelle scuole formalmente de-segregate , annulla platealmente il programmato tour in Urss. E dà del «double faced», ipocrita, e «gutless», pavido, al presidente Eisenhower in persona, perché non fa rispettare le leggi.

NIENTE BROADWAY
A questo punto entrano in gioco Dave Bruckeck, per la musica, e la moglie Iola, per i testi. Che decidono di scrivere un musical, la forma più classica dunque dell’entertainment e del teatro musicale «leggero» americano, per denunciare l’ambiguità della propaganda della «libera America» che segrega i propri cittadini, e pretende di usare i jazzisti come «secret sonic weapon», arma segreta sonora contro i comunisti. Brubeck e signora contattano Louis Armstrong, subito entusiasta del progetto, nel settembre del 1961 tutto il cast è riunito in studio per tre giorni: un insieme di altezze musicali inconsueto e irripetibile. Satchmo, tromba e voce, e personaggio principale per The Real Ambassadors, la magnifica voce trionfante di Carmen McRae, il trio vocale funambolico formato da Dave Lambert, Jon Hendricks e Annie Ross, il trombone di Trummy Young, Brubeck. Una storia bizzarra e surreale, nei testi, ma che nasconde una miriade di stoccate: Louis re per un giorno di una nazione immaginaria in cui i governi di Russia e America si scambiano le parti, e le piazze diventano rotonde per non aver più «spigoli sul cammino della pace». In un brano Satchmo canta: «Dicono che io assomigli a dio. Ma dio potrebbe forse essere nero? Mio dio! Se tutti sono fatti a tua immagine e somiglianza, potresti essere per caso una zebra? Possibile? No, lui no». L’album, magnifico al riascolto, fu l’unico di Brubeck, manco a dirlo, a non diventare un best seller. Brubeck riuscì a presentarne alcuni estratti al Festival jazz di Monterey nel settembre del ’62, un successo pieno: Satchmo, entrato in scena con un cilindro in testa sul palco si commosse a cantare quei testi strani e urgenti, fino alle lacrime. Lo spettacolo a Broadway non si fece mai. Gli «Ambasciatori veri» di Brubeck il signore bianco che odiava i razzisti, facevano paura, e mettevano a disagio la zona grigia d’America. Da anni la vocalist e didatta nordamericana Dianne Mower si batte per riportare in scena The Real Ambassadors: sul suo sito si possono seguire le iniziative.