Giovane, carina e sorridente, NoViolet Bulawayo si è presentata al Festivaletteratura di Mantova con il suo primo romanzo, C’è Bisogno di nuovi nomi (pp. 265, euro 18, Bompiani), uscito lo scorso anno negli Stati Uniti e già salutato dal pubblico e dalla critica anglo-americana come il nuovo racconto dell’esilio e delle nuove patrie, comparato in maniera benaugurante alle precedenti Zadie Smith e Monica Ali. Nata in Zimbabwe nel 1981 e immigrata negli Stati Uniti a diciotto anni, l’autrice, così come la sua eroina, incarna la figura del migrante che unisce in sé più culture e ne è talora dilaniata. Con voce pacata da sembrare quasi timida, ma sicura e senza esitazioni, Bulawayo ha raccontato di sé e del suo paese, del libro e i suoi personaggi.
Perché proprio quel titolo del romanzo? Secondo l’autrice, le giovani generazioni dello Zimbabwe hanno bisogno di dare nuovi nomi a se stessi e al mondo che li circonda e che sta cambiando, «è necessario cercare modi diversi di guardare se stessi e di immaginare il proprio futuro», ha affermato.
Per quanto riguarda il suo nome d’arte invece, lo ha definito «molto più di uno pseudonimo. È un omaggio a mia madre che si chiamava Violet e morì quando avevo solo diciotto mesi. Lei mi fu negata persino nel ricordo, poiché nessuno da allora ne parlò più. È anche un omaggio alla gente del mio paese – Bulawayo è la sua città di origine e seconda città dello Zimbabwe, ndr -, da cui ho dovuto star lontana tredici anni, prima di potervi rimettere piede».
Nonostante evidenti similitudini tra il vissuto dell’autrice e quello della protagonista del suo romanzo – Darling è una ragazzina di dieci anni che cresce in Zimbabwe compiendo scorribande con una gang di bambini di strada, prima di emigrare verso gli Usa presso una zia alla ricerca di un futuro migliore – Bulawayo nega (poco convincentemente, per la verità) l’autobiografismo della sua opera, sostenendo grandi differenze tra la sua esperienza personale e quella fittizia di Darling. «Ho avuto un’infanzia felice, la mia generazione ha sperimentato l’unico periodo felice, o per lo meno stabile, dello Zimbabwe, dopo il colonialismo ma prima del crollo, mentre Darling e i suoi amici stanno assistendo alla devastazione del paese, la povertà, la violenza, l’aids e un regime repressivo. Nella seconda parte del romanzo, invece, quella ambientata negli Stati Uniti, l’esperienza di Darling si avvicina di più alla mia, esprime maggiormente gli stati d’animo che anche io ho provato, il dolore e la perdita che accompagna ogni immigrato. La scelta di bambini/adolescenti come protagonisti non è stata casuale: a loro è affidato il futuro della nazione, ma di solito il loro parere non viene mai né chiesto né ascoltato».
Da qui emerge un’altra componente fondamentale del romanzo, quella della lingua, come sistema di comunicazione ma anche veicolo di cultura: arrivata alla scrittura attraverso la narrazione orale, Bulawayo ricorda in particolare le storie di sua nonna, più fantasiose e favolistiche, e quelle di suo padre, più di avventura e guerra, due diverse espressioni della ricca tradizione orale del suo paese. «Sono stata allevata a forza di storie, quando ero bambina io, le donne per lo più non lavoravano fuori casa e tiravano su i figli. Sono state loro, con i loro racconti, a consegnarci un idioma e un linguaggio, quelli della nostra tradizione. E poi c’era la lingua che parlavamo a scuola, l’inglese della nostra formazione e dei nostri studi. Ma era un inglese molto diverso da quello parlato in America: quando arrivai negli Stati Uniti, pur essendo sempre stata una dei bambini più loquaci a scuola in Zimbabwe, il mio accento suonava così strano e incomprensibile ai miei compagni di classe (accento che funge da elemento ghettizzante anche nei confronti di Darling, e che la ragazzina cerca di nascondere e camuffare in tutti i modi, ndr), che preferii rimanere muta per lungo tempo nella nuova scuola». «L’oralità – ha spiegato poi Bulawayo – rimane fondamentale nella mia scrittura; quando scrivo penso ai miei lettori, però immagino sempre anche un ascoltatore orale che possa captare la mia storia per strada. Non ho un lettore/ascoltatore preciso in mente, mi auguro che possa essere tanto africano quanto occidentale, un cittadino del mondo che abbia voglia di scoprire l’umanità dell’altro».
Nonostante la giovane età, Noviolet Bulawayo emana una saggezza rassicurante, soprattutto quando sostiene ad esempio la necessità di collaborazione tra uomo e donna e l’inutilità di separatismi sessisti e rivendicazioni femministe: «Di certo le donne hanno sofferto e continuano a soffrire per mano degli uomini in molta parte del mondo, e questo è deplorevole, ma farebbero un grosso errore a schierarsi contro di loro e a voler salvare il mondo da sole; perché le cose possano cambiare e migliorare, in Africa quanto in Occidente, c’è bisogno che entrambi i sessi collaborino e lottino fianco a fianco!».
Tratto dall’estensione del racconto Hitting Budapest, con cui Bulawayo vinse il Caine Prize nel 2011, C’è bisogno di nuovi nomi ha già vinto l’Hemingway/Pen Award (che tanta fortuna ha portato a Teju Cole, altro giovane scrittore africano presente al festival) e nel 2013 l’ha resa la prima donna africana e prima scrittrice dello Zimbabwe ad essere inclusa nella shortlist del Man Booker Prize, lasciando presagire un futuro costellato di altri «nuovi nomi» di cui non solo l’Africa ma il mondo intero ha bisogno.