Kaleidoscope, dal greco kalós bello, eidos immagine e skopéo osservare: l’indicazione ci serve come guida alla scomposizione in quelle mille visioni sparse nello spazio circostante che vengono evocate nei Tre quadernetti indiani di Dario Borso (illustrazioni di Pietro Spica, introduzione di Valerio Magrelli, con una postilla di Chandra Livia Candiani, edizioni Exorma, pp. 120, € 13,50) diario, lucido e onirico insieme, di un viaggio longitudinale dentro una India di volti frammentati e vetri colorati, in un paesaggio sempre mutevole grazie a simmetrie e riflessi generati dallo sguardo e restituiti dall’autore attraverso una parola il cui farsi è alterato dall’incontro di un bagliore, di un ticchettio, oppure schiuma in una concatenazione di allitterazioni.

La scrittura riporta resti letterari, parole altrui, addensandosi e scomparendo in sequenze sonore («ognuno va per conto suo all’ascolto, poi ritrovandoci ci si scambia i suoni: cloc, zzz, gluglu, sssc …»), infatti Dario Borso procede per associazioni e, esattamente come nel caleidoscopio, ad ogni giro di sguardo, l’immagine cambia in una nuova analogia («Giù dalla tettoia l’acqua fa fili fitti di cristallo. Se li scosti con la mano è come entrare in rivendite assolate di paese: lo stesso fresco, lo stesso tintinnio di catenelle»), in un susseguirsi di descrizioni di grande capacità espressiva.

La conoscenza dell’India che Borso ci propone non ha carattere conoscitivo intellettuale, piuttosto si stabilisce sulla base di una reazione, di un trauma, oppure di un suono; è cioè una conoscenza interamente generata a partire dai sensi (non solo la vista, ma udito – «la voce indugia prima sulle tonalità gravi, ci gira intorno ma poi procede a strappi, quasi a singhiozzi, e vibra in acuti drammatici. Di drammatico le voci indiane hanno che si rincorrono su tempi estenuanti senza mai raggiungersi» – olfatto, tatto e gusto).

Due i progetti di scrittura, che si inseguono e si intersecano: uno riguarda la narrazione del viaggio vero e proprio, compiuto dall’autore quando aveva vent’anni, attraverso luoghi come Madras, Kovalam, Alleppey, Cochin: un peregrinare fisico verso orizzonti convessi, schiacciati da cumuli «neri, grigi, violacei»; l’altro investe il testo come luogo deputato alla rappresentazione dell’Immaginario, dove la riflessione sul linguaggio, sottolinea Magrelli nell’introduzione, comincia dal «vincolo baudelairiano tra poesia e convalescenza» e continua come sottotraccia al testo, per riemergere quando la luce scivola sulla superficie, il tempo crolla e qualche cosa costringe il pensiero all’infanzia.

La scrittura si verticalizza allora nello scavo «ed ecco che una parola qualsiasi, anche un avverbio, anche una particella, sale sul palco e chiama altre sorelle ad improvvisare». L’Immaginario risulta essere perciò l’ordine stesso della rappresentazione. L’«io» dell’autore si ferma su descrizioni illusorie, favolose, che lo riguardano e queste figurazioni non si producono casualmente, ma nel rapporto che il soggetto intrattiene con ricordi fondamentali della sua vita, evocati in un susseguirsi di epifanie. Così, non è un caso che i disegni di Spica ricordino le illustrazioni delle fiabe.
Le aspirazioni di stampo immaginifico prevalgano su ogni altro presupposto di realtà: non a caso, perché l’autore si dice appartenere alla categoria di coloro «che di notte camminano sul bagnasciuga lasciandosi dietro una scia luminosa».