Dario Bellezza è morto nell’ospedale Spallanzani di Roma alle tre del mattino del 31 marzo 1996, all’età di cinquantatre anni. L’aids aveva attaccato i suoi polmoni, soffocandolo. Intubato, si agitava, cercava di dirmi qualcosa. I funerali si svolsero a Santa Maria in Trastevere alle undici e trenta del primo aprile. Ho portato insieme ai pochi amici che lo hanno assistito, la bara sulle spalle. All’entrata nella Chiesa sembrava pesantissima. All’uscita invece era leggerissima, come se il corpo avesse lasciato la bara per stare ancora un poco tra noi. Come in trans riuscii a dettare a Enzo Golino dell’Espresso un coccodrillo.

Alle cinque del pomeriggio, nella chiesa sconsacrata di Santa Rita dei Poverelli si tennero i funerali laici, alla presenza dell’assessore alla cultura, di un senatore che si era prodigato per fargli avere la Bacchelli che però giunse dopo la morte, di Gloria Bellezza e tanti poeti, giornalisti e scrittori. Dario era nato in via Anicia e restò a lungo monteverdino finché, scappato di casa, non si trasferì nella grande casa trasteverina di Amelia Rosselli, la sua prima ossessione materna. Visse a lungo, dopo aver litigato con la poetessa, in via Pettinari e di lì in via Bersani. Passeggiava per Campo dei Fiori, per la sua Navona come un romano antico, per niente affascinato dalla modernità. D’estate aveva amato i paesi del sud.

Oggi sembra un poeta dimenticato. Al Roman poetry festival, che si tenne due anni fa, intervistai Alfonso Berardinelli sulle letture che lo videro presente per tutto il Sessantotto, una volta a settimana insieme a Dario, Amelia Rosselli e tanti altri nel caveau della libreria Ferro di Cavallo di via Ripetta. Su Dario mi confessò che non gli piaceva chi recitava da poeta, anteponendo il personaggio alla persona. La teatralizzazione della poesia poi ebbe momenti indimenticabiili nel Festival di Castelporziano che vide trentamila – minestrones – scatenati che affondarono la giovane poesia di quelli nati nel Quaranta. Dopo l’oscar Mondadori a cura di Roberto Deidier, sei anni fa, è iniziato il silenzio.

È appena uscita un’antologia di sessantatre poeti della generazione del Cinquanta a cura di Arnaldo Colasanti dove elencando i numerosi esclusi, non viene nominato Bellezza, nonostante che il critico gli avesse dedicato un libro entusiasta. Ma conosciamo l’indifferenza su quel nome dei poeti del Cinquanta. Per fortuna ci sono due annunci del venticinquennale che fanno ben sperare nella ripresa dell’attenzione per il mio amico poeta. Si sta allestendo un documentario, il primo, con la regia di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese. E arriverà, speriamo presto nelle librerie, il romanzo biografico che Igor Patruno ha tratto dal nutrito archivio Bellezza, scoperto dall’infaticabile Garrera, i due organizzatori del fortunato Roman poetry festival dove si lessero poesie di Dario.

A rileggere l’oscar Mondadori oggi si scopre che Dario non assomiglia a nessuno. Non a Pasolini, non a Penna. Nonostante le influenze della poesia di Amelia Rosselli e di Elsa Morante, nemmeno a loro. E anche il suo io pimpante e gridato, – sbudellato – come lo chiamava, il suo Melodramma, appare oggi come un monologo spezzato, infarcito di linguaggi desueti, ma mai dannunziano, come pure si è detto. Ad apertura del suo capolavoro – Invettive e licenze -, presentato da Pasolini come il miglior poeta della sua generazione, si può leggere: «Ma non saprai giammai perché sorrido. Perché fui il pedante Amleto della più consolatrice borghesia. Perché non ho combattuto il Leviatano Stato che vuole tutto inghiottire. Nella macchinosa congerie della sua burocrazia inesorabile. Ora mi nascono le unghie come ai morti». Sono versi ispirati dai sonetti di Shakespeare.

E subito dopo nella poesia Quale Sesso ha la morte? entriamo nell’eros del corpo che non ci abbandonerà più, con la vergogna del sesso sconclusionato di chi solo all’Anagrafe è maschio. Più giù scrive: «Spiavi I sonni e le marchette, le stente lirette| che davo: a sera L’Angelus sonava invano». E ancora: «Io sono solo qui a ricordare. Com’era bella l’innocenza di sapersi normali». Fino alle poesie sui gatti, veri capolavori, quei bastardelli tanto amati che raccoglieva per strada e curava ai Pettinari: «Addio cuori, addio amori», sono i versi che volle sulla sua tomba al cimitero acattolico degli inglesi. Ne abbiamo avuto pochi di poeti nella seconda metà del Novecento e Dario Bellezza è tra questi.