Fin dall’inizio, circa nel 2001, della mia personale ricerca sulla bici ho avuto un punto focale irrinunciabile: ridare dignità al mezzo. Magari qualcuno non lo ricorda ma a quei tempi la bicicletta era considerato un mezzo da poveracci, in qualche sacca poco attenta della società lo è ancora oggi ma ormai il valico è superato.

Allora era così. Per anni mi sono ingegnato a organizzare mostre con le mie ri-costruzioni, basate sulla de-costruzione: mettere a nudo il più possibile le ossa della bici e al massimo fare degli interventi cromatici inusuali, spesso azzardati. Un gioco ben riuscito che mi ha portato a voler costruire telai anche questi a volte azzardati ma comunque semplici e soprattutto attraenti. Ho sviluppato però uno snobismo meccanico in qualche modo inaccettabile e quasi patologico, poco adatto al mezzo popolare per eccellenza.

Consapevole di questo Riccardo, un caro quanto sadico amico, si presentò da me con un telaio della famigerata Verdona, la Mtb anni ’90 firmata da Pininfarina per la Esso, sfidandomi a renderla non dico bella (lui disse così, in realtà) ma almeno accettabile (questo fu il mio rilancio). Si era ai tempi della pandemia. Il telaio è rimasto accatastato su altre cianfrusaglie per tre anni, ogni tanto lo guardavo e distoglievo quasi subito gli occhi. Sicuramente sapete di che oggetto parlo: quella bici presente in ogni angolo d’Italia dal color verde raganella, si può trovare in balconi, cortili, fermate del tpl, sotto i ponti, ovunque. Generalmente abbandonate. Centinaia di migliaia di esemplari presi con i punti benzina e una modesta cifra in lire: una combinazione tossica nata dal connubio tra il più quotato carrozziere d’Italia, che ha vestito decine di Ferrari, e l’azienda petrolifera più grande del mondo. Il risultato è stato un oggetto inguardabile, anche se robusto e a suo modo ben costruito. Il telaio – taglia unica – è uno scatolato d’alluminio di sezione ovale e a forma di Y sbracata, molto grosso, che contrasta con forcella e posteriore in tubazioni di diametro inferiore. La componentistica è «entry level» ma funzionale: ogni pezzo, osservato singolarmente, sembra normale. L’insieme assemblato è un pugno nell’occhio, con l’aggravante del colore osceno.

Ho sabbiato via il colore, lucidato il telaio e sostituito la forcella con una molto imponente che riequilibra il rapporto con le dimensioni della Y, più un’impostazione gravel con piega, leve, monocorona e meccanismi di qualità. La chicca è il faretto anteriore montato molto alto, a mo’ di «café racer». Di una rigidità assoluta ma piacevole. Il fatto che riceva apprezzamenti, anche superlativi, mi insospettisce e mi fa ripiombare nello snobismo: quanto effettivamente è diventata accettabile e quanto, invece, ancora c’è incultura del mezzo bici? Poi penso che in fin dei conti è una bici che ha trovato un senso, pedalo e me la godo parecchio. Anche per lo sberleffo fatto, in primo luogo a me.