A determinare il passaggio dalla modernità alla contemporaneità è, secondo Reinhardt Koselleck, una rinnovata concezione dell’esperienza, non più intesa come un rapporto lineare con il passato, determinato dalla tradizione culturale, ma come un rapporto sagittale che indaga il presente, la nostra attualità, alla ricerca di possibili relazioni tra il nostro qui e ora e un orizzonte mutevole di aspettative future. Il filosofo tedesco colloca storicamente questo passaggio in quella che definisce età cerniera, un periodo compreso tra il 1750 e il 1870.

Volendo indicare una data precisa, tuttavia, questa andrebbe fissata al primo novembre del 1755, giorno del Terremoto di Lisbona. Si tratta di un evento-soglia, che segna il passaggio di consegne fra l’era teologica della storia in cui Dio è spettatore assoluto e onnipotente del mondo, e quella secolare nella quale la sua sola ipotesi appare del tutto inutile. Dalle macerie di Lisbona sorge un mondo «in cui si discuterà sempre meno di peccato e di colpa, e sempre più di catastrofe, di responsabilità, di rischio».

Ed è a partire da questo evento-soglia del terremoto di Lisbona che Andrea Tagliapietra, nel suo ultimo libro Filosofie della catastrofe (Raffaello Cortina, pp. 157, euro 14), riunendo i saggi dei maggiori filosofi dell’epoca (Voltaire, Rousseau, Kant), coglie l’occasione per costruire un vero e proprio discorso filosofico della catastrofe che sia capace di indagare il senso specifico di questa esperienza limite.

L’ASPETTO DECISIVO e sorprendente del terremoto di Lisbona fu non tanto la sua portata distruttiva quanto il suo carattere di prossimità. Gli immani disastri di Port Royale, di Lima, di Pechino e dello Shaanxi – quest’ultimo, a tutt’oggi, noto come il più catastrofico terremoto della storia, con oltre ottocentomila vittime – avevano scatenato tiepide reazioni. Quei terribili cataclismi «stavano lì, ai margini del mondo» mentre «Lisbona, invece, era Europa», il baricentro della civiltà occidentale. La percezione della prossimità del disastro lusitano veniva accentuata, peraltro, dalla coincidenza dell’evento con un momento storico di grande espansione delle possibilità comunicative: stampe, volantini, resoconti del terremoto si diffondevano ad una velocità sempre crescente, e contribuivano a plasmare quella che, oggi, potremmo definire un’esperienza mediatica della catastrofe, la sua spettacolarizzazione. Era sorta la possibilità, ignota fino ad allora, di guardare a quel disastro assumendo «la condizione privilegiata di spettatori».

IL TERMINE catastrofe trae peraltro il suo significato originario proprio dal lessico del teatro greco, in modo specifico da quello della tragedia. Essa è «l’evento drammatico significativo, la svolta che decide il finale di una narrazione», o ancora «il compiersi luttuoso del destino dell’eroe tragico». Un evento che, pur nella sua assoluta irreversibilità, «si connette a ciò che lo precede secondo una precisa configurazione di senso», offrendo la possibilità di imparare dal dolore. Un dolore che non è visto come un problema, ma come una misura dell’umano, come un enigma da sopportare e fronteggiare, dimostrando di esserne all’altezza. È solo con la modernità che il termine catastrofe assume il suo significato generico e comune. La catastrofe moderna non colpisce più il singolo, ma le collettività, le moltitudini. Essa, inoltre, è vissuta come imprevedibile e inattesa: irreversibile, certo, ma del tutto priva di senso rispetto alla condizione che la precede.

A DIFFERENZA DEL PUDORE tragico, infine, dove non si moriva mai davanti agli spettatori, la catastrofe moderna si presenta priva di pudore, mettendosi al centro della scena. «Lisbona è distrutta e a Parigi si balla», può scrivere allora Voltaire, denunciando il carattere indifferente di tutti coloro che hanno avuto notizia del terremoto, anzi colpevolizzandoli e trasformandoli in spettatori tranquilli e compiaciuti di una tragedia priva di senso.
Rigettando l’ottimismo leibniziano secondo cui «Tutto è bene», protestando in nome della ragione contro quel disastro della natura ed esponendo il catalogo di atrocità e sofferenze patite dalle vittime – «Queste membra disperse sotto i marmi in frantumi;/ centomila feriti che la terra divora,/ che, insanguinati, fatti a pezzi, ma ancora vivi,/ sepolti sotto i loro tetti, terminano senza aiuto/ i loro giorni di pena fra atroci tormenti!» – Voltaire inaugura una nuova modalità di esperienza della catastrofe, che consiste nella possibilità di «farne un uso estetico, anzi iperestetico». Uso che si tradisce fin già dall’incipit del suo poema: «Accorrete, contemplate queste tremende rovine».

ACCANTO A QUESTO USO estetico, tuttavia, vi è un uso anestetico della catastrofe, che mira alla sua normalizzazione, alla sua reintegrazione nella continuità del discorso logico e razionale. L’evento di rottura irreversibile della catastrofe viene esorcizzato nel momento in cui lo si riconduce, come fa Rousseau, all’ordine naturale delle cose, attribuendo le responsabilità morali dell’immane disastro alle vittime stesse. Per l’autore dell’Emilio, nemico acerrimo della civilizzazione, «se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minore imponenza», il disastro avrebbe avuto tutt’altra portata o, forse, «non ci sarebbe stato affatto».

In quest’ottica anestetizzante rientra, per certi versi, anche la reazione di Kant, che sfrutta la catastrofe come «banco di prova per sviluppare una filosofia della natura rigorosamente razionale, in grado di mettere fuori gioco ogni interpretazione teologico-apocalittica». Il tentativo kantiano di sostituire l’ordine presente ma inconoscibile di Dio, con l’ordine presente ma conoscibile della scienza, non è tuttavia scevro di considerazioni morali: la catastrofe «ricorda all’uomo i suoi limiti e lo ammonisce di non intendere se stesso come il fine unico ed esclusivo dell’universo». Essa concorre, seppur in un quadro provvidenziale ascrivibile ancora una volta all’imperscrutabilità divina, «alla prospettiva di una pace perpetua».

È qui che si accede all’uso contemporaneo della catastrofe, il suo uso politico. Un uso nel quale non sono i suoi possibili significati ad essere in gioco, quanto il loro effetto e la loro convergenza in funzione di una ontologia del presente, un’ontologia di noi stessi. «Le catastrofi hanno un ruolo decisivo in questo tipo di ontologia perché mobilitano e producono un noi». Esse mobilitano i soggetti, li interpellano, li producono e li amministrano, provocando una discontinuità «alla quale si deve rispondere non con un sapere ma con un essere».

LO SPETTACOLO della catastrofe, con il suo pathos distruttivo, punta all’escalation, al divenire globale. Poiché lo spettacolo non è mai un’immagine ma, come diceva Debord, un rapporto sociale tra individui mediato dalle immagini, «la severa pedagogia amministrativa della catastrofe» svolge la funzione di inglobare le singolarità, ritraducendole in un «noi» generico e privo di specificità, e che proprio dalla catastrofe trae la sua forza e la sua legittimità. «Per evitarla? No, semmai per produrne di nuove e di più efficienti».
Ma dietro questo spettacolo amministrato della catastrofe si nasconde, fuori dalla scena, la possibilità di una domanda, quella sul senso ultimo dell’evento. Si tratta di una domanda che comporta una radicale messa in crisi del soggetto, la dissoluzione di quel presunto artefice della storia che fino a oggi si è continuato a chiamare uomo.

È la «possibilità abissale dell’inumano», che svincola l’evento dalla sua relazione, mai necessaria e soltanto apparente, con la coscienza dei soggetti. L’evento-limite della catastrofe deride il genere umano, umilia la sua volontà di potenza. Ma allo stesso tempo lo pone dinanzi alla possibilità di fare esperienza del proprio limite – psichico, esistenziale, corporeo, spirituale, temporale. Il limite della sua effimera singolarità. Forse è solo dopo aver compreso il senso specifico di questo limite che, al di là di ogni suo possibile uso mobilitante, ci sarà consentito prendere coscienza della catastrofe sempre incombente del nostro tempo a termine, e guardando con ironia alle nostre crepuscolari singolarità, come Alexis Zorba, potremo danzare esclamando: «Hai mai visto una catastrofe così bella?».