Le strane parole di Danza urbana potrebbero rimandare a una sorta di ossimoro, in quel dispiegarsi fra il calore del corpo in movimento e il freddo della pietra, richiamato dalla dimensione urbana. A Bologna invece è un festival che festeggia il quarto di secolo di vita sotto la direzione di Massimo Carosi, raccogliendo alcuni dei migliori nomi della coreografia nazionale e non solo.

Vuol dire portare la danza nei luoghi pubblici, le piazze e i palazzi storici ma anche gli spazi da rianimare delle periferie. E viene naturalmente in mente lo «spazio vuoto» evocato da Peter Brook in un libro di anni lontani e forse felici, dall’inizio folgorante. Ricordate? Possiamo scegliere un qualsiasi spazio vuoto e dire che è un nudo palcoscenico; un uomo attraversa questo spazio vuoto mentre un altro lo sta a guardare, e ciò basta per dar vita al teatro – diceva più o meno così il vecchio maestro.

PAROLE che descrivono perfettamente ad esempio gli Echoes che Cristina Kristal Rizzo ha allestito in uno dei capannoni dell’ex scalo merci delle Ferrovie ribattezzato DumBo, acronimo che sta per un impegnativo «distretto urbano multifunzionale». Ecco che nel vasto spazio vuoto si fa avanti una danzatrice, Annamaria Ajmone (bravissima, la conosciamo). Sistema da un lato una videocamera montata su un’asta e inizia un solitario movimento – le avvertenze iniziali ci avevano infatti avvisato che la performance veniva ripresa e trasmessa in live streaming, chiunque poteva fruire anche di questa seconda visione.

Più avanti altri quattro danzatori si uniscono alla prima, sotto la guida della stessa artefice, assimilati dalla medesima tenuta, una camicetta bianca aperta sulla schiena. I movimenti lenti sembrano nascere e aderire al gocciolio suadente dei suoni. In realtà gli echi del titolo non sono quelli dell’omonimo brano dei Pink Floyd che chiudeva album Meddle ma il più contemporaneo sound di Frank Ocean, in cui a un certo punto si insinua spiazzante la voce infantile di una piccolissima spettatrice (sapremo poi che si chiama Rosalia, avrà vent’anni nel 2040). Ed è un non cercato momento di poesia.

Ma intanto anche lo spettatore sospettoso è stato tentato di dare un’occhiata alle immagini trasmesse da quell’occhio digitale che ogni tanto gli interpreti spostano per mutarne la prospettiva. E con un certo stupore si accorge che le due visioni non coincidono, c’è un evidente sfasamento temporale fra i due momenti. Il passato irrompe nel presente, sovvertendone l’esperienza.

CI SI SPOSTA invece in centro, nel monumentale Salone del podestà di Palazzo Re Enzo affacciato su piazza Maggiore, per seguire il concettuale lavoro del CollettivO CineticO di Francesca Pennini, Palpebra, che parte dal rumore prodotto da due percussionisti per arrivare al silenzio e alla protratta immobilità dei cinque interpreti.

E da lì si scende nella sala dove la compagnia di Enzo Cosimi si confronta con la lontana memoria della tragedia in uno scatenatissimo Coefore Rock&Roll, secondo tratto di un progetto ispirato all’Orestea di Eschilo. Ecco due coppie di danzatori incappucciati e una chitarrista sdraiata a terra sul lungo tappeto bianco che percorre la sala, ingombro di animali di pelouche. Saranno dunque Oreste e Pilade tornati per vendicare insieme alla sorella Elettra la morte del padre? O c’è in gioco il «profilo duale» di Oreste? Meglio non cedere ad ansie contenutistiche e abbandonarsi piuttosto al piacere caciarone della danza, sostenuta dal frastuono cupo della musica. Dai cafetani spuntano fuori giovani corpi abbigliati in una apparente nudità. Corrono, si affrontano, si scontrano, si tirano dietro colorata coperte lavorate a maglia, da cui emergono volti insanguinati. E un giovanile sentimento del tragico.

SI TORNA ai suoni del silenzio con le Annotazioni su Preistorico ancora in progress di Virgilio Sieni, presentate all’interno della chiesa di San Mattia, sconsacrata e spogliata di ogni arredo sacro, solo qualche traccia degli antichi affreschi resta sulle pareti – e tuttavia è impossibile non sentire la sacralità dello spazio, sarà anche la penombra azzurrata che l’avvolge o il velo sonoro che assomiglia a un sordo lamento. A terra si allunga il profilo di una sinuosa spina dorsale disegnata da detriti raccolti a L’Aquila, fra le macerie del terremoto. Una performer, Claudia Caldarano, sta immobile al fondo della navata per poi muovere in avanti, da lì, raccogliendo e risistemando quei frammenti di un mondo perduto, archeologia di non si sa più che cosa. Facendone il punto di partenza che si sviluppa nella danza. La sequenza si ripete sei volte, progressivamente variata dall’interprete, mentre la luminosità va calando. Ruota su di sé, si concentra su gesti minimi, striscia a terra alla ricerca di una posizione, forse cerca in sé una memoria emozionale. Si esce un poco turbati.